Scritto da Francesco Cangioli
Illustrato da Giulia Dasiari
Mettere un punto
Questo racconto sarà un unico, lunghissimo periodo, e non certo per scimmiottare José Saramago, che comunque scriveva periodi più brevi, né per cavalcare l’onda del Nobel a Jon Fosse, che peraltro non ho mai letto, ma piuttosto perché io sono incapace di mettere un punto, nella vita come sulla pagina, e certo non imparerò a metterlo oggi, in una notte qualsiasi, dopo aver fatto diversamente per tanti anni, al che potreste obiettare che quantomeno potrei inserire qualche punto e virgola, così, tanto per rendere meno sofferta la lettura, ma no, vi sbagliate, proprio non posso, perché, per quanto il punto fluttui a mezz’aria sospeso sul capo della virgola, c’è lo stesso e io non riesco a tollerarlo, dunque stiamo parlando di un altro segno d’interpunzione precluso alla mia penna, e scrivere interpunzione mi fa venire in mente, per assonanza, la parola punizione, che infliggo a me stesso vivendo una vita di sole virgole, nella quale niente è mai davvero concluso, al limite i dolori troncano la frase a metà, a volte persino una parola rimane monca, la narrazione viene azzoppata da un cliffhanger del destino, ma poi arriva la virgola e segue, magari dopo una breve pausa, un altro frammento di vita giustapposto, che posso illudermi sia in continuità col precedente, ma in fondo so che non è così, o meglio, me ne rendo conto stanotte, in un momento di particolare lucidità, tuttavia potrei essermene dimenticato già domani, anzi, spero proprio che lo dimenticherò, perché non voglio correre il rischio di soffrire, soprattutto non ho intenzione di tornare in terapia, dove sono già stato per qualche tempo, ma la mia terapeuta, che ovviamente ritengo ancora tale, perché nemmeno con lei ho messo un punto, limitandomi piuttosto a diradare i colloqui, a non risponderle quando mi telefona, a richiamarla per finta, facendole squillare il cellulare solo una volta o due e agganciando prima che prenda la chiamata, insomma, la mia terapeuta mi buttava fuori dalla stanza in quattro e quattr’otto, tagliava corto se appena mi dilungavo nelle considerazioni di fine seduta, se pretendevo di rimanere per dieci o venti minuti in più, e questo m’irritava a morte, lo vivevo senz’altro come un rifiuto, come un abbandono, ed era proprio ciò su cui stavamo lavorando, ma io mi chiedo come pretendesse di guarirmi dall’angoscia se lei stessa mi abbandonava, e ancora non riesco a darmi una risposta, ma essendo un grande appassionato di Rilke faccio mio il suo invito ad amare le domande e lascio la questione in sospeso, insieme a tutte le altre questioni sospese della mia vita, che mi fluttuano sopra la testa come palloncini gonfiati a elio contro il soffitto di una stanza, come quando ero piccolo e mia madre un po’ mi abbracciava e un po’ sembrava seccata dalla mia presenza, così non insistevo, m’infilavo sotto al tavolo della cucina e raccoglievo le ginocchia contro il petto, aspettando che arrivasse il momento buono per tornare da lei, lasciando che il mio dispiacere fluttuasse, e ora vi starete chiedendo perché ve ne parlo, forse sono solo come un cane e mi metto a vomitare i fatti miei col primo sconosciuto che mi legge, ma vi assicuro che non è così, mi limito a spiegarvi perché questo racconto è fatto di un unico, estenuante periodo, e in fondo non è neppure un racconto, è nient’altro che la disamina incompleta del perché io non possa scrivere racconti come tutti gli altri, che richiedono pause e prevedono un epilogo, mentre io, che ho una vita fatta di virgole, preferisco tirare dritto, evitare anche gli a capo, colpevoli di procurarmi un vuoto allo stomaco per via di quei centimetri di pagina vuota che puzzano di gelida dimenticanza, e tuttavia so bene che questo soliloquio dovrà interrompersi a un certo punto, e quando accadrà, quando ci separeremo, rivedrò i corpi rigidi e terribilmente allungati dei miei genitori stesi nelle bare, sarò costretto a ricordare la mia voce di bambino che gridava e piangeva, e come allora avrò le mani congelate, a un passo dalla paralisi, ma il mio dito schiaccerà comunque il tasto della virgola e io potrò credere che non ve ne siate andati per davvero, che in qualche modo riprenderò a scrivere questo racconto un giorno o l’altro, e invece lo lascerò in sospeso, l’ennesimo palloncino a elio contro il soffitto della mia paura, a illudermi che se evito i punti non morirò, che nessun altro morirà mai più, che chi è morto in fondo non lo sia davvero, perché, chissà, forse anche la morte non è che una virgola,
© Racconto di Francesco Cangioli | Illustrazione di Giulia Dasiari | Editing di Paolo Perlini
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