Scritto da Sabrina Gatti
Illustrato da Cosimo Gigantiello
La milza di Medea
Non c’è scampo dalle eredità familiari. Ho comprato quel ristorante per via di mio padre, aveva sempre gestito dei bar: bar di passaggio dove passava sempre la stessa gente. Un bar di passaggio diventato bar di paese, bar Roma, bar Statale 11, bar Bar.
Caffè e aperitivi erano le fonti di maggior guadagno, qualche panino a pranzo, qualche cappuccino, un’ordinazione sempre sorprendente. Il cappuccino non era ben visto, se qualcuno lo ordinava il silenzio prendeva spazio, quella bevanda era estranea all’ambiente, come ordinare un uovo dei cento anni in una pizzeria.
Non ho mai capito perché.
Passavo il pomeriggio a fare i compiti nel retro e ad ascoltare pezzi di conversazioni, frammenti incomprensibili, fino ad ottenere mappe mentali di eventi, persone, e dislocazione geografica. Una parte del mio cervello era una spugna pronta a immagazzinare storie umane. Come una frequenza sempre aperta su Radio Maria.
In quegli anni, assieme alle tabelline, avevo imparato che la gente mente agli amici, ai nemici. Commette errori, è ossessionata dal sesso e che, in quel luogo di sacchetti di patatine e spritz, i filtri etici cadono. Uscivano dal bar con i polpastrelli unti e con la coscienza sporca ma più leggera. Una grassa chiesa dal perdono facile ed economico. Un fast food della confessione.
Mio padre lì giorno e notte, un pianeta a se stante. Chissà quando trovò il tempo di scopare mia madre e farci quattro figli. Teneva una brandina nel retro perché, come diceva lui, ‘Se chiudo alle cinque chi me lo fa fare di andare a casa?’.
Non aveva mai capito che casa sua era quella stanza sul retro: un lettino con vista parete, un calendario del 1997, l’anno della morte di Lady D., di Gianni Versace e di Madre Teresa. Ho sempre trovato inquietante quella vecchia suora incartapecorita. Potente e vestita di bianco.
Il sogno di mio padre era da sempre quello di aprire un ristorante. Presi il suo sogno banale e lo feci mio. Non aveva senso pensarne altri, era già ben confezionato, pensato, ripensato, digerito, rigurgitato, piatto pronto.
Immaginavo un ristorante in cui i culi comodi sulle sedie non avessero mai più voluto alzarsi, in cui le coppie si dichiaravano amore, dichiaravano figli in arrivo, o promozioni al lavoro, o festeggiavano nuove case. Sorrisi di stupore e attimi di illusione. Abracadabra.
Ma ogni ristorante è infelice a modo suo.
Si chiama Medea, uno spazio pieno di fiori recisi che ricordano l’ineluttabile, dettagli in oro e nero che rievocano civiltà scomparse.
Ci sono voluti due anni per trovare uno chef adatto a quello che avevo in mente.
Amo la milza, il fegato, il cervello, il rognone e ogni organo interno.
A dodici anni mia zia sverginò la mia bocca con fegato fritto e cipolle. Fu amore. E sappiamo che l’amore assomiglia alla dipendenza. Mi masturbavo pensando alle sue mani infilate in quella carne scura, mi venivo nei pantaloni e ricominciavo. Fegato e sperma.
Mangio milza di giovedì e venerdì, a volte assaggio carboidrati, ma non ne sento la necessità.
Stefan, lo chef, aveva capito cosa intendessi per esaltare l’interno e aveva costruito un menù perfetto.
Ai vegetariani non è permessa l’entrata. Non sopporto chi detta regole su quel che è giusto infilarsi in bocca.
Piccola puttana stupida.
Vecchio stronzo ossessionato dal surriscaldamento.
Donna in menopausa convertita a una spiritualità che non le appartiene.
Nutrizionista youtuber misantropo.
Gli esseri umani vogliono salvare il mondo invece di loro stessi.
Stefan fa anche fantastiche seghe, non siamo innamorati, siamo una coppia solo dentro il ristorante, fuori da quelle porte nessuno conosce nulla di nessuno. Vivo di scelte altrui, solo nel mio castello di frattaglie.
Ho provato ad avere una moglie, sono stati mesi soffici, ma preferisco la durezza. Atena mi sposò perché le serviva un marito, il tempo di capire che poteva trovare di meglio. Aspettai il momento in cui mi versò da bere e mi disse addio. Non ci incontrammo mai più.
Il concetto di cucina del Medea è chiaro: una difficile avventura.
Ma siamo seri, sono bocconi da ingoiare, niente di più, niente di meno.
Di dichiarazioni d’amore ne ho viste, un paio davanti al cervello con spuma di rapa, qualcuna mentre masticavano rognone all’aglio croccante. Ho assistito anche a molte crisi esistenziali e relazionali.
Il mio ristorante ha la capacità di esasperare le emozioni, come un evidenziatore che sottolinea le parole rabbia, frustrazione, disperazione, paura. Scarabeo difettoso.
Gli avventori si sentono scombussolati e vanno in bagno a cercare ossigeno, lì trovano poltrone e divanetti, e lavanda provenzale. Ma non basta, forse sono io che catalizzo il tormento, oppure sono le interiora che ci mostrano il profondo, e non ci piace.
I clienti raramente tornano, ma va bene così, il mio ristorante è un bar di passaggio.
© Racconto di Sabrina Gatti | Illustrazione di Cosimo Gigantiello | Editing di Chiara Bianchi
La milza di Medea | Racconto | Indigeribili
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