Malammare | Racconti Indigeribili

Malammare | Racconti Indigeribili

Scritto da Ilaria Padovan
Illustrato da Antonella Depalma


Malammare

Ho scavato un buco, mi ci sono messo dentro: ci è voluto un gran bel tempo.

Stavamo parlando.
(Parlavamo tuttiltempo).
Solo che, poi, non succedeva niente. Non succedeva proprio niente. Così, ho deciso.
Stavamo parlando e lì ho deciso.
Stavamo parlando. Mi ci è voluto un gran bel tempo, poi, ho deciso.
È che parlavamo, ma non era sua la testa. Il corpo era suo, lo guardavo, lo vedevo. La testa, invece, no. Parlavamo, ma non era la sua la testa e non succedeva proprio niente e allora non capivo. Non capivo più perché, perché lo stessimo facendo, perché parlare tuttiltempo per tutto questo tempo.
Allora ho deciso: ci è voluto un gran bel tempo.
Fuori: c’era un gran bel tempo.
C’era vento, nell’altro emisfero poteva pure esserinverno, ma fuori, qua, c’era proprio un gran bel tempo. E io avevo deciso: camminare. Ero uscito, a camminare.
Camminavo.
Poi mi sono perso: non ci è voluto nemmeno troppo tempo.
Mi sono perso, ma ho continuato a camminare: mia madre lo diceva “da qualche parte arrivi sempre”, lo diceva, mia madre lo diceva. Bastava continuare, non fermarsi, continuare a camminare: da qualche parte, allora, vedi che ci arrivi sempre.
A lei il dove non era mai importato, bastava non fermarsi e, infatti, siamo arrivati fino a qui. Anche se forse non è andata proprio bene. Anche se, forse, poteva proprio andare meglio.
Intanto, mi ero perso, ma continuavo a camminare. Perché non ci si poteva fermare: mia madre. Mia madre, lo diceva.
Finché sono arrivato al mare.
E il mare era bello. Dio, quanto. Io non ci vivevo mica al mare, non ci ero mica nato, peròddio quanto era bello il mare. Aveva ragione mia madre, allora, aveva ragione: bastava non fermarsi, continuare a camminare, non importava dove, poi si arrivava al mare. Lei non ci era mai arrivata, io, invece, adesso sì.
Ero lì, davanti al mare: di camminare, avevo smesso. Forse aveva ragione mia madre: ci ero arrivato al mare, ma, arrivati a un certo punto, bisognava pure impararsi a fermare. 

Stavamo parlando, un corpo senza testa: la testa rotolava. Da qualche parte, rotolava. Fermarsi, mia madre non l’aveva mai capito, non l’aveva mai imparato, quindi, rotolava.
Stavamo parlando, era andata così, poi ero uscito a camminare. Finché era finita la terra, finché era iniziato il mare. Ci era voluto un gran bel tempo a sapersi fermare. Intanto la testa continuava a rotolare.
Ho camminato duettrèppassi per tornare un poco indietro: lontani, bisogna stare lontani, allontanarsi, per vedere i panorami. Così, sono tornato indietro, sui miei passi, senza sporcare la sabbia, senza macchiare la sabbia di altrimpronte, di piedi senza un senso che, ormai, mica serviva camminare. Duettrèppassi all’incontrario. Stavo camminando: poi, seduto.
Ero seduto. Mi ero seduto sulla sabbia. Fermarsi: c’era il mare. Non è che puoi camminarci dentro al mare, questo, pure mia madre lo capiva. Infatti, mia madre, rotolava: camminare, aveva smesso. Piuttosto, rotolava.
Ero seduto: pensavo: che peccato non potersi mai fermare. Ma io ero fermo, seduto, sulla sabbia. La sabbia che si infila nei vestiti pure se stai fermo. La sabbia che ti mangia, pure se stai attento. Ma, di fronte al mare, non è che ci puoi fare tanto.
Di fronte al mare. Ero seduto di fronte al mare.
Fermato.
Fermo.
Finalmente.
La testa, peccato, rotolava.
Decidere: si poteva, si doveva ancora fare. Rotolare, per l’appunto: rotolare. Un frenetico entusiasmo che evidenzia: una testa, la vedo: rotola e vavvia mentre io sono seduto e decido di restare.
Ero seduto. Di fronte al mare, ero seduto e decidevo: di restare.
Ero seduto, finché i piedi sono diventati d’elefante, sì, ma ripieni di formiche (formicai): non te ne fai niente di piedi formicai. Così, più niente da decidere se coi piedi non puoi più farci niente, niente da decidere, non è che ti puoi ancora alzare o fare male.
Ero seduto: sarei rimasto lì. Del resto, c’era il mare.
Tenevo ancora gambe e ossa e braccia e mani e testa, più la testa di madre che non si fermava, mai: non aveva mai imparato, ormai, non imparava più.
Ero seduto di fronte al mare, poi: scavare.
Avevo ginocchia su cui stare, corpo, braccia e unghie: potevo ancora fare. Così, avevo deciso di scavare. Allora, scavavo un buco nella sabbia. Faceva male. Un po’ – bisogna dirlo – un po’ faceva male. La sabbia si infilava dappertutto: la sabbia tagliatutto.
Si staccavano le unghie manammano, i piedi già perduti, ma tenevo ancora tutto il resto e il corpo ancora mi tenevassieme.
Io scavavo.
Scavavo un buco nella sabbia: pure se lì davanti stava il mare, non importava proprio niente: scavare, questo era. E il buco diventava bello grande. E passava tanta gente.
Mi guardava male, mi guardava come si ricordano gli incubi: molli. E disperati. Mi guardava: io scavavo. Scavavo per sfuggire a quel disgusto, a quell’orrore che ero io per la gente. Un uomo senza piedi e senza unghie con la testa di una madre che chissàddove rotolava, un uomo fermo, in ginocchio, davanti a un buco, davanti al mare.
Io scavavo, la gente mi guardava, mi lanciava avanzi di mandarini e frutta senza una stagione: non sono riusciti a fermarmi: mi hanno reso peggiore, questo sì. 

Ho scavato un buco: mi ci sono messo dentro.
Ci è voluto un gran bel tempo. Le unghie, tutte, poi le mani ci son volute. Le ginocchia, pure andate, le gambe addormentate. Ci era voluto un gran bel tempo, ma mi ci ero messo dentro.
Avevo scavato un gran bel buco e mi ci ero messo dentro: non avevo più le mani, il cuore, invece sì. Del resto, chi non muore non ha il cuore. Io, invece, sì l’avevo.
Io stavo dentralbuco: pensavo: preferivo un tramonto pure brutto che un funerale fattobbene. Il mare si mangiava tutto il sole: mi si spegneva la bocca. 

Stavo dentralbuco: cadeva il cielo sopra. Cadevano le stelle, bello era. E le stelle, pure, belle. Non avevo più le orecchie, gli occhi, i denti: l’acqua la sentivo. L’acqua. Il mare, che peccato, nemmeno lui si può fermare. Tiene una testa che rotola pure lui, chissà, poi, di chissàcchì

Stavamo parlando, poi, stavo dentro al buco, solo, con un cuore che batteva. Chi non muore, non ha il cuore: il mio, batteva ancora. Il mare (mia madre) rotolava ancora, la sentivo: l’acqua che arrivava.
Stavamo parlando e poi avevo scavato un buco e mi ci ero messo dentro. Chissà il mare. Chissà l’acqua, chissà da dov’è che arrivava tuttaquanta. Eppure, stava quasi tutta dentro al buco. Pure lei.
Mi si era spenta la bocca, avevo perso le mani: non servivano più: prima stavo dentro a un buco, adesso, io ero il buco. E mi stavo riempiendo d’acqua mentre, sopra, cadeva il cielo con tutte le stelle: le pupille, avevo ancora le pupille, punti neri sopra il nero: un puntino non esiste.
Ho scavato un buco, mi ci sono messo dentro, ci ho messo dentro tutto il mare.
Ci è voluto un gran bel tempo.


© Racconto di Ilaria Padovan | Illustrazione di Antonella Depalma | Editing di Chiara Bianchi


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