Memorie della foresta Damir Karakaš

Memorie della foresta Damir Karakaš

Memorie della Foresta è un romanzo di cui si dovrebbe fare solo una cosa: leggerlo. E poi farlo ancora.

di Paolo Perlini 

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«Sono disteso a letto e tendo l’orecchio; la casa di legno è imbottita di vecchi giornali e il vento trova nuove fessure: soffia muovendo le ombre nella stanza. Poi si sente un secco tintinnio di catenacci: mio padre sta slegando il bestiame. Mi vesto in fretta e corro fuori, la vacca Suza è già uscita dalla corte: la seguono šarava, Lozonja, Peronja».

 

Inizia così Memorie della Foresta, di Damir Karakaš. Una prosa secca, decisa, ogni frase pesata, come se fosse la misura di pallini per una cartuccia di fucile. Si sente il ritmo della camminata, il passo guardingo del cacciatore che entra nella foresta, procede per qualche metro e poi si ferma, con gli occhi e lo sguardo attento, pronto a percepire il rumore della preda. Oppure lo sguardo  di un ragazzino difettoso che gioca, studia, lavora, pensa e si muove sempre con quell’orso che alberga nel proprio cuore.

«Mio padre sta seduto su un ceppo; in mano tiene un metro giallo ripiegabile, dietro l’orecchio una matita da carpentiere. Si alza e cammina intorno alla casa come un sonnambulo; per caso ho sentito che ha un progetto: costruire accanto alla nuova casa anche la stalla, così le vacche non potranno più dormire e cacare sotto di noi».

Non è la musica veloce di una Kolo, la danza tradizionale croata, ma nemmeno il turbofolk di Goran Bregović. Ricorda di più un tango, impreziosito da piccoli movimenti inseriti tra i passi, per non interrompere del tutto la danza e dare più dinamismo al lento movimento. Ogni episodio segue questa struttura ed è bello seguire con il dito la partitura di questo ragazzino difettoso che vive in un villaggio nell’entroterra della Croazia, a ridosso della foresta e lontano dal mare. Potrebbe benissimo essere un qualsiasi paese balcanico e per esagerazione, anche la nostra campagna degli anni Sessanta.

Il padre del ragazzino non accetta che questo suo figlio sia incapace di aiutarlo come si deve nel lavoro dei campi e poco si interessa ai suoi progressi nello studio. La madre è più accomodante e deve tirare su anche una bambina dai denti cariati che sembrano ancora più neri quando la forchetta lucente si avvicina. La nonna paterna, forte dei suoi anni, cerca di valere qualcosa, magari consigliando di rivolgersi a Zlatko il veterinario piuttosto che al medico, perché se quell’uomo sa curare le bestie che sanno dire dove hanno male, vuoi che non riescano a curare un bambino che parla?

La nonna, che si «toglie dal capo il fazzoletto nero, scuote la polvere e dice con orgoglio, con una voce che per via della polvere ha tanti suoni, che non c’è nessuno migliore di me nel nostro villaggio, anzi in tutta la nostra zona, a parcheggiare le vacche in retromarcia. “Così si deve fare nella vita” dice mio padre e guarda il cielo; è la prima volta che mi fa un complimento».

Sono gli anni della Jugoslavia, per chi la ricorda, della coca cola nera o gialla, della televisione in bianco e nero con la pellicola blu per dare l’impressione che sia a colori, della milicija che incute paura, anche se non si ha commesso alcun reato. Delle gite scolastiche nei campi dove morirono molti innocenti per mano degli ustascia.

È un romanzo composto da trentatré capitoli, episodi, racconti. Già su questo numero si potrebbero aprire delle riflessioni: trentatré sono gli anni di Cristo, trentatrè sono i canti di ciascuna parte della Divina Commedia, trentatré è quello che ti chiede di dire il dottore quando ti ausculta.
La prima impressione è che ognuno di questi potrebbe stare in piedi da solo; man mano che si prosegue nella lettura ci si rende conto che la loro ricchezza sta proprio nell’unità, quasi a significare che la nostra vita è composta da tanti momenti, taluni a prima vista insignificanti ma che assumono valore presi nell’insieme.

Al termine della lettura ho provato una strana sensazione, come non mi succedeva da anni, forse dai tempi dell’adolescenza. Ho sentito l’impulso di cominciare subito a rileggerlo e poi di tenerlo sempre con me nella borsa, come si fa con il portafoglio, un pacchetto di sigarette, lo smartphone, le chiavi di casa. Un qualsiasi oggetto che devi riprendere in mano più volte. Ho sentito il bisogno di parlarne subito ma di farlo poco, per non rovinare l’emozione. Ho sentito il bisogno di ricominciarlo e farlo ancora, con la paura poi, di non riuscire a leggere altro.

Titolo: Memorie della foresta
Autore: Damir Karakaš
Casa editrice: Bottega Errante Edizioni
Collana: Estensioni / 17
Anno: 2020
Pagine: 144

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