Unfriended

Unfriended

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Uno studio della Newcastle University uscito su una rivista specializzata, poi riportato dal Corriere della sera nel 2012, sostiene che il suono più difficilmente sopportabile sia quello di un coltello o una forchetta sul vetro.
Lo studio, definito “semplicemente curioso, ma che in realtà è molto serio”, insomma la tipica frase da fascetta pubblicitaria posta su un libro a caso di crescita personale mixata a principi di religione vedica, si basa su un campione ristretto di volontari, perciò la sua attendibilità non è assoluta. Infatti, se avessero chiesto a me quale suono ritenessi essere il più insopportabile, avrei risposto che sarei stato indeciso tra la voce di Gigi D’Alessio e le notifiche di Skype.
Quello scoppio di bolla che accompagna l’avvio del programma e la melodia di sottofondo alle chiamate in uscita ridestano gli istinti di distruzione della tecnologia tipici dei luddisti di fine settecento. 

E se già è difficile fare i conti con quei jingle infernali almeno una volta al giorno dopo aver acceso il pc, figuratevi cosa significhi sostenere un’ora e ventidue minuti di film che fa ampio utilizzo della famosa app di comunicazione di casa Microsoft e non solo.
Perché Unfriended”, pellicola del 2014 disponibile sulla piattaforma Netflix, è una bacchettata horror in salsa (rigorosamente barbecue) americana sull’etica on-line, il cyberbullismo, i rapporti di amicizia non così trasparenti e l’uso improprio dei social network. Che poi, i temi sono molto attuali, e necessitano di essere discussi, trattati e spiegati. Da tempo incrocio le dita nella speranza che da qualche parte un oscuro ibrido fra Giovanni della Casa e Don Milani stia redigendo una sorta di Bibbia educativa al corretto uso della tecnologia, ma quotidianamente mi ritrovo smentito e deluso a leggere l’ennesima blastata di Mentana o un nuovo video di Marco Monty Montemagno che tenta di scalare l’olimpo della divulgazione populista.
Ma torniamo al film. 

La trama in breve è la seguente: una ragazza, che scopriremo non essere amata neppure dai suoi cosiddetti amici, in seguito alla pubblicazione su YouTube di un video che la ritrae in uno stato di evidente ubriachezza e disfacimento fisico, si suicida nel campo sportivo della scuola dopo aver ricevuto disgustosi commenti anonimi nei principali fori on line.
Il giorno dell’anniversario, la sua cricca si trova a fare una videochiamata di gruppo a cui partecipa un misterioso utente che dapprincipio si prende gioco di loro (no, non è Burioni), fino a coinvolgerli in un gioco bello da morire che piano piano farà venire a galla i segretucci che ognuno di loro serba dentro di sè.
Il tutto girato come se fossimo la protagonista Lily, cioè di fronte alle mille finestre più una del suo Mac. Le uniche immagini, difatti, sono quelle che i quadrati di Skype permettono di vedere.

I protagonisti sono tutti teen-ager, parola che penso di utilizzare ormai solo io e una manica di sociologi chiusi in qualche emeroteca a studiare le abitudini di acquisto dei giardinieri bresciani negli anni ‘60, con problemi da teen-ager contemporanei.
Ovvero: alcolismo, sesso, utilizzo di armi da fuoco, tradimenti,minacce di morte e il contemporaneo mantenimento di una salda e prospera immagine pubblica. I tempi dell’acne e delle genuflessioni verso il dio-genitore per poter stare in giro fino a mezzanotte (d’accordo, ma voglio nome, cognome, indirizzo, iban, codice fiscale, numero di piede e indice di massa corporeo dei tuoi amici e di ogni membro della sua famiglia fino ai trisavoli) sembrano essere passati da un pezzo. 

Quello che scorre davanti è “un film giovane, fresco e contemporaneo”, come direbbe qualche critico al giro di boa dei 50, oppure lo potremmo definire “cioè, è una roba che ci sta troppo. Mi ha preso bene”, con le parole di un quattordicenne-tipo a cui produttori e regista si volevano evidentemente rivolgere.
Il dover seguire lo svolgersi dei fatti saltando, pardon, skippando fra chat di iMessage, pagine di Google, profili Facebook, Playlist di Spotify e chiamate via Skype, mi ha fatto riflettere su quali siano i nuovi confini verso cui la narrazione, per ora cinematografica, si possa e voglia spostarsi, agganciando dinamiche sociali e di genere sempre più attuali.
Ok, non è vero. Questa è la riflessione seria che ho dovuto inserire per darmi un tono.

La prima cosa che mi è saltata in mente dopo i titoli di coda è stata che chiunque abbia conseguito un diploma da più di 20 anni, utilizzi Facebook per dare il “BUONGIORNISSSIMOOOOOOO” e creda che Spotify con Skype siano pittoresche interiezioni in dialetto ugro-finnico, possa non averci capito un cazzify, per dirla in ugro-finnico, appunto.
Tra l’elemento horror che tarda ad arrivare come un treno che viaggia sulla tratta Roma-Nettuno, e gli elementi pulp meno credibili di un Sharknado qualsiasi, il film arriva alla fine lasciandoci la straniante sensazione che in un’ora e ventidue si sarebbero potuti guardare un sacco di documentari sulla cultura Masai o ancora meglio farsi prendere dalla classica sindrome da brain-storming culturale di Google per cui partendo dalla ricerca delle abitudini riproduttive dei tassi ci si ritrova a leggere e simpatizzare per le posizioni degli indipendentisti altoatesini.

In ogni caso, in tempi di Blue Whale in cui violenze e soprusi cibernetici sono sempre più frequenti, non fa male ricordarsi le parole di zio Ben. Non mio zio Ben, ovviamente, ma LO zio Ben, il povero zietto di Peter Parker che nonostante i 456 reboot della saga continua a morire su di un marciapiede tentando di fermare il solito rapinatore dando inizio all’epopea di Spiderman:
“Da un grande potere derivano grandi responsabilità”.
Perciò è vero che la rete e i social costituiscono un’opportunità unica, come mai nella storia se ne sono viste, di creare un tessuto connettivo umano su scala globale, una rete che esprime appieno il concetto di intelligenza collettiva, ma al tempo stesso fornisce facilmente la malta e il cemento per erigere muri di anonimato dietro i quali si può sparare a zero su chiunque e qualsiasi cosa. Ma ciò ha un costo, e spesso ci rende dimentichi che esistono delle conseguenze che si riverberano su un mondo, quello reale, in cui per eliminare ciò che ci turba o qualche brutta esperienza non basta cliccare sulla X nell’angolo superiore di una pagina o disconnettersi.

© Marco Patrito

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