In altre parole - Dizionario minimo di diversità | Fabrizio Acanfora

In altre parole - Dizionario minimo di diversità | Fabrizio Acanfora

In altre parole - Dizionario minimo di diversità | Fabrizio Acanfora | effequ

di Giulia Gazzo

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Credo che dopo aver letto queste pagine non userò mai più il termine inclusività così spesso parlando di diritti civili, e se mi capiterà ancora di usarlo sarà più che altro per un’abitudine consolidata, come succede con tutte quelle parole che è scontato pronunciare e subito dopo ti rendi conto che non lo fai perché ci credi davvero, lo fai perché nessunə le ha mai messe in discussione presentandoti delle alternative valide. E adesso calma, perché mi sembra già di sentire un coro di: “Ma come? Non crede più nell’inclusività? Che stronza! Le è apparso Vittorio Feltri in sogno facendole il lavaggio del cervello?”

Niente affatto, nonostante possa capitare che melatonina e valeriana possano fare brutti scherzi non mi è ancora capitato di avere un incubo così sgradevole. È solo che includere è un verbo ingannevole, un verbo che implica la presenza di un’entità pre esistente e superiore, un’entità padrona che può decidere se ammettere o meno un’aggiunta. Questa aggiunta non è mai alla pari dell’entità padrona che concede l’inclusione, il rapporto tra le due parti non è equilibrato. È come se da un lato avessimo un tomo molto importante e conosciuto, e dall’altro delle note a piè di pagina che prima di essere ammesse nella nuova stesura devono chiedere se per favore sono sufficientemente pertinenti e leggibili. Non sono e non saranno mai come il testo principale, infatti alcune persone preferiranno addirittura saltarne la lettura. E magari nella prossima edizione si deciderà di cancellarle e sostituirle. Non hanno mai avuto diritto ad essere lì sin dall’inizio. Sono state, per l’appunto, incluse in seguito. 

 “Esiste quindi uno squilibrio di potere tra chi include, che anche senza porre condizioni all’ingresso nel gruppo di maggioranza può decidere se e quando permetterlo, e chi è incluso, che riceve il permesso di far parte del gruppo in cui è accolto. In questo senso (…) anche l’inclusione rischia di diventare un processo discriminatorio perché attribuisce al gruppo culturalmente dominante un potere maggiore rispetto alle minoranze, cosa che si traduce in uno squilibrio della dignità e del valore anche morale attribuiti a ciascun gruppo.”

Eppure vi assicuro che erano lì fin dall’inizio, quelle parole generosamente allegate al grande libro dell’esistente umano. Magari con il tempo hanno cambiato look, ma sono sempre state lì nell’angolo dell’indesiderato e dell’innominabile. Solo che quella cosa chiamata normalità voleva tenerle fuori. Adesso, a determinate condizioni, sembrerebbe volerle invitare alla festa. Ma la diversità, da sempre il principale contenitore di ogni categorizzazione umana e non umana - cosiddetta normalità compresa - ha davvero bisogno di invito e inclusione? 

“Una possibilità che vedo più pratica è di sostituire completamente il termine “inclusione” con un altro che già in partenza contenga un significato adeguato al compito che dovrà assolvere e, secondo me, un’ottima candidata potrebbe essere la parola “convivenza”. (…) Non dice nulla su chi decide cosa, ma ispira un’idea di mutuo rispetto, parità e neutralità.”

Su questo e tanti altri temi Fabrizio Acanfora invita a riflettere. Il suo Dizionario minimo di diversità, come ogni dizionario che si rispetti, procede in ordine alfabetico analizzando moltissimi termini utili a comprendere il rapporto che la nostra società normocentrica ha con il concetto di diversità. Da “abilismo” a “bullismo”, a “genere” a “intersezionalità”, passando per “neurodiversità”, “privilegio”, “stereotipo” etc. Il viaggio che Acanfora ci propone vede nel linguaggio uno strumento fondamentale per poterci prendere cura di noi e del prossimo. E io sono completamente d’accordo. 

Oltre all’idea di inclusività come forma di elemosina paternalistica da superare, sono tre gli spunti che mi hanno maggiormente colpita leggendo questo saggio. 

1 - Il modello medico si è insinuato nella vita sociale facendoci molto male.  

“Un modello prova quindi a spiegare esclusivamente un pezzo della realtà che è specifico al campo di studio a cui fa riferimento. Eppure, la convivenza di alcune categorie di persone, gruppi di maggioranze e minoranze, viene regolata da un modello di stampo medico che utilizza la statistica per dividere il mondo in individui sani e malati, abili e dis-abili, funzionanti e difettosi, normali e diversi.”

Con sincerità fermiamoci un attimo a pensare a quanti termini di stampo sanitario, frutto del linguaggio medico e dunque patologizzante, utilizziamo nella vita di tutti i giorni al fine di stigmatizzare persone che non riusciamo a comprendere, o con cui abbiamo dei conflitti. Chi non capisce in fretta ciò che vogliamo comunicare è “demente”. Chi ci appare completamente assorbitə da se stessə 

è “narcisista patologicə”. Una persona contraddittoria è “bipolare”, un’altra la cui disorganizzazione ci disturba è “schizofrenica”.  E ancora “sei da rinchiudere, trovane uno bravo”. Abbiamo la convinzione che ciò che percepiamo come normalità sia anche sinonimo di sanità, fisica e mentale. Distribuiamo patentini di salute e malattia come se niente fosse, come se una linea di demarcazione ben precisa dividesse chi può vivere alla luce del sole da chi “dovrebbe farsi curare”. Lontano da noi ovviamente. I corpi e le menti che percepiamo come sane sono anche normali, tutto ciò che vive al di fuori di queste limitanti categorizzazioni deve essere eliminato o corretto. 

“Fuori da un modello che rende la diversità patologica la società condanna i comportamenti, mentre all’interno di un modello patologizzante a essere condannata è la persona in tutta la sua interezza.”

Il problema infatti è che il modello medico, che ricordiamo bene non è immutabile ma si è evoluto svariate volte nel corso dei decenni e continua ad evolversi, vede le caratteristiche non conformi come deficit da correggere. Dunque adottare un linguaggio medico nella vita quotidiana significa classificare ogni divergenza e discrepanza come qualcosa da eliminare o compatire, bollando l’intera persona. Se ragioniamo e comunichiamo in questo modo, ogni attentato alla nostra personale percezione del reale diventa un virus da combattere. Abbiamo permesso che accadesse credendo che il linguaggio frutto del modello medico fosse il linguaggio della razionalità e della verità, ma dovremmo ricordarci di come ad esempio l’omosessualità fosse considerata una patologia a tutti gli effetti fino al 1990. Io avevo già trascorso su questa terra quattro anni nel 1990, e il modello medico aveva già plasmato una realtà sociale che oggi ci appare ovviamente intollerabile. Ricordiamoci di questo, prima di utilizzare linguaggio medico con superficialità.

2 - I bias sono impossibili da evitare, ma possiamo prenderci cura di loro nutrendoli con del cibo migliore. 

“Il problema, quando si parla di diversità e di discriminazione, è che certe spiegazioni potrebbero suonare come delle giustificazioni, allontanando la responsabilità dalla persona il cui linguaggio o atteggiamento ha offeso o pregiudicato qualcun altrə. Inoltre rischiamo di far passare questi meccanismi, che sono alla base del funzionamento del nostro cervello, come degli errori, dei difetti che avvengono “ogni tanto”. Ma un bias non è un errore o una fallacia cognitiva, bensì il funzionamento di default del cervello. Si tratta di una strategia che durante la nostra evoluzione si è rivelata conveniente, e cioè quella di preferire la rapidità di decisione rispetto alla precisione.”

I bias cognitivi sono le semplificazioni su cui fondiamo la stragrande maggioranza dei nostri pregiudizi. Pensiamo spesso (per lo meno coloro che si pongono il problema di piantarla di discriminare le persone) che i bias siano sì strategie mentali naturali, ma che dovremmo stroncarle sul nascere quelle maledette furbacchione che cercano di farci elaborare più alla svelta. Sintomo di pigrizia e disonestà intellettuale, i bias ci mettono in imbarazzo come lo zio che vota Salvini. Vorremmo fingere di non conoscerli. Eppure se esistono un motivo c’è. La mole di informazioni che il nostro cervello è chiamato a processare ogni giorno della nostra vita è immensa, e per evitare il surriscaldamento del motore principale che governa il nostro organismo abbiamo necessità di semplificare, non possiamo farne a meno. È quindi probabile che non abbandoneremo mai completamente pregiudizi e stereotipi. Ma possiamo fare in modo che questi pregiudizi e stereotipi aderiscano il più possibile alla realtà. Se, per fare un esempio, il nostro sistema cognitivo necessita di avere dei bias sull’autismo, facciamo in modo che siano bias ben informati. Ascoltiamo cosa hanno da dire le persone autistiche, nutriamo con il loro racconto i nostri bias. E se dopo vent’anni tali informazioni saranno superate? Non c’è problema, aggiorniamo il menù. Le nuove informazioni non gli andranno certo di traverso. I bias diventano obsoleti, semplificazioni offensive e discriminatorie, solo se dimentichiamo di dedicare loro una continua ed amorevole manutenzione. 

3- Il concetto di norma è nato insieme alla statistica, ma non si può misurare con il centimetro l’infinità varietà umana.

Facendoci fare un tuffo nel passato, l’autore ci racconta che a metà dell’Ottocento un astronomo di nome Adolphe Quetelet ebbe l’idea di applicare i criteri di misurazione astronomica allo studio di ogni varietà umana, dalle caratteristiche dei corpi alle abitudini come individui e società. Partendo dalle misurazioni dei petti dei soldati scozzesi propose così il modello di “uomo medio”. Che poteva essere applicato ad ogni ambito. Ad ogni tappa dello sviluppo fisico, cognitivo e sociale, poteva essere applicata una media. Come giustamente osserva Acanfora, queste misurazioni statistiche risultarono molto utili nella nascente società delle masse. Eravamo sempre più numerosə, facevamo sempre più cose, controllarci attraverso delle “medie” anziché come singoli individui permetteva l’esistenza di una burocrazia più agevole. Ma rinchiudere la consuetudine statistica entro un recinto dorato denominato normalità ha creato l’opprimente sistema gerarchico che ancora oggi considera i comportamenti, gli orientamenti, e i corpi che appaiono più frequenti come dettame da seguire. Oltre la media esiste il vastissimo mondo di tutto ciò che vi si discosta. Considerati errori e falle di sistema, debitamente tenuti a distanza dai privilegi concessi alla classe dominante “normale”, diventiamo così eccezione. Anche se siamo moltitudine. Perché roviniamo la media, che in realtà è solo una parte della stessa moltitudine. La varietà innata sembra compromettere la teoria, propugnata da una delle più terrificanti ideologie della storia moderna, che esista un modello di individuo perfetto la cui perfezione è dimostrabile da una misurazione, e a cui chiunque dovrebbe voler aspirare. Eppure non è stato il nazismo ad inventare la misurazione statistica, l’eugenetica, il concetto di normalità. Ha solo adottato e banalizzato nella sua più brutale ed onesta applicazione l’idea che esista un modello assoluto da contrapporre a tutto il resto. Ma il diktat secondo cui ciò che non rientra nella giusta circonferenza deve essere escluso e stigmatizzato lo viviamo ancora. Senza tenere conto che la varietà non può rientrare in nessuna misurazione circoscritta, perché è semplicemente la naturale ed eterna condizione di ogni organismo vivente. 

“La diversità biologica riguarda le persone, non è una nicchia in cui tenere nascoste quelle differenze percepite come stranezze che si allontanano dalla perfezione ideale di normalità. La diversità è la base di ogni cosa, è l’essenza stessa della natura, del mondo, dell’umanità. Ecco allora chiarito il significato di questa parola, diversità, ossia varietà. La diversità, spostando il punto di osservazione, è quella condizione che comprende ogni persona senza fare alcuna distinzione, in un’ottica non più categoriale ma intersezionale, perché ciascunə di noi è il risultato dell’intersezione di tante unicità. Vista cosi, la normalità diventa una sotto categoria della più vasta diversità, una categoria ideale, non naturale e dai confini estremamente marcati. Osservata da quest’angolazione, la normalità rappresenta idealmente una minoranza all’interno della vastità della diversità: la fantomatica maggioranza è quindi, paradossalmente, minoranza, e sarebbe ora di rendercene conto.”

La conclusione che ho tratto al termine di questa lettura è che può sembrare un percorso accidentato, ma ne vale la pena. Val la pena ascoltare chi ci spiega perché una parola che abbiamo sempre pronunciato senza farci troppe domande è offensiva e ferisce, val la pena ampliare il nostro punto di vista attraverso le esperienze di chi ha funzionamenti mentali o caratteristiche fisiche diverse dalle nostre. Val la pena rendersi conto che il concetto di normalità è un costrutto sociale assolutamente arbitrario, e che la convivenza tra diversità non è solo auspicabile ma possibile, a patto che ognunə di noi dedichi la giusta cura e la giusta manutenzione al dizionario minimo di diversità che ci portiamo dietro, e che costruiamo insieme cammin facendo. 

Collana: Saggi Pop
pagine: 224
Prezzo: 17 €
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