The King | Netflix

The King | Netflix

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C’era una volta un Re e poi non ci fu più.
Il trabucco è pronto, l’assedio può iniziare.
E invece no, è già finito!
Un ritmo biblico alla “e fu sera e fu mattina” consuma settimane di sofferenza degli assediati e di frustrazione degli assedianti in pochi minuti.

C’è questa scena stupenda, con il cielo ancora bagnato dalla luce di un tramonto quasi estinto e la linea dell’orizzonte rotta dalle sagome ora scure ora brevemente illuminate di alcuni soldati che osservano in religioso silenzio la pioggia di proiettili infuocati che cade sul castello nemico.  

Triplo salto mortale indietro:
il primo avvitamento ci porta in una sala del cinema nel settembre del 2015, il secondo al confine fra Stati Uniti e Messico. 

Stiamo brevemente in equilibrio su quel capolavoro foschissimo che è stato “Sicario” di Denis Villeneuve e sopra quella poltroncina ora comoda ora strizzata fra file troppo vicine fra loro.

A 1h21m53s la task-force guidata da Matt Graver/Josh Brolin e Alejandro/Benicio del Toro viene lentamente inghiottita nell’oscurità di cui è tinta ogni cosa sotto un cielo ancora debolmente illuminato.
Climax massimo di una discesa nella pece che ricopre il nocciolo di ogni discorso intorno a giustizia e affini. Una scena bellissima, necessaria, ma soprattutto, coerente.
Ultimo avvitamento e siamo di nuovo al film di Michôd.

Cosa ci dice quella, di scena, altrettanto espressiva ed evocativa? 
Niente, è fine a se stessa, grazie per la visione. 



La sensazione che pervade tutta la pellicola, termine comprato con i quasi 15 euro dell’abbonamento alla piattaforma Netflix e da allora quasi completamente svuotato di senso, è che tutto quanto scivoli via un po' troppo in fretta.
Se “The King” fosse una persona vostra amica, sarebbe quella che non riesce mai finire una frase perché si fa costantemente trascinare da una specie di frenesia che lega i fatti uno all’altro con deboli nodi “a coniglietto”.
Manca sempre qualcosa, qua e là.

C’è un re, Enrico IV, che è cattivello per poco, muore in fretta e in fretta si pente della propria condotta nei confronti di un figlio, Hal o il futuro Enrico V, invischiato per scelta nella melma viziosa del popolino. Guai a portarsi la colpa dei padri nella tomba, no?
Dicevamo del popolino. 
Dov’è? Chi è? 
C’è un’ostessa, un amico ubriacone che si rivela essere un cavaliere di lungo corso e tanti schiamazzi dalle finestre.
Ecco quel che c’è, una certa idea di popolo, un po' come se il regista stesse dando di gomito allo spettatore sussurrandogli all’orecchio: 
- Dai, che tanto sappiamo tutti come facevano in quel periodo storico. Bevevano, frequentavano bordelli, avevano i denti marci e insorgevano contro la fame e le tasse alte. Andiamo avanti, che ne dici? -. 

E andiamo avanti David, che devo dirti?



Enrico V sale al trono ed è un re illuminato, vuole cambiare tutto: operazione di rebranding che dura, anche qua, giusto il tempo di ricevere un paio di offese dal delfino di Francia e di decidere di portare il proprio “popolo” al di là della manica impegnandosi in una guerra lampo (nel film, altrimenti nella storia siamo all’interno della cornice della Guerra dei Cent’anni, giudicate un po' voi). Ma fino a quel momento il ragazzo se l’era cavata bene eh!

Adesso intendo procedere con lo stesso passo del film, a scatti e velocemente, spargendo un paio di considerazioni su alcuni punti.
Enrico V sembra più un Elio II, nel senso che il buon Timothée Chalamet pare essere troppo prigioniero del proprio personaggio cinematografico e mediatico, risultando simile a se stesso in modo maldestro e trasformando la bella Francia in un’ombra sbocconcellata della stagnante Crema di “Call me by your name”. 
Quest’interpretazione gli varrà l’Oscar che in tanti vanno invocando? Spero e penso di no, ma mai dire mai. Le vie dell’Academy sono infinite. E imperscrutabili. E commerciali. Vedremo.

L’attore newyorchese ce la mette tutta, e se il film non affonda probabilmente il merito è in buona parte suo e della bella scena della battaglia, che definirei realistica, limata nei minimi dettagli, dall’accuratezza storica alla resa visiva e sonora. Un punto a Michod su assist della battaglia dei bastardi di Gamesofthroniana memoria. 
Parliamo brevemente di Robert Pattinson in una versione dolorosamente e terribilmente francofona. Passo e chiudo.
E infine l’epifania finale di Hal (che curiosamente è anche il secondo nome di Timothée Chalamet) che gli fa aprire gli occhi sull’insensatezza della guerra, delle proprie scelte (spoiler: pilotate) e sul valore dell’onestà in un legame matrimoniale. 
E vissero felici e contenti perché, pure qui, tutto scorre via veloce come vino all’adunata degli Alpini. 

Insomma, il film è un buon prodottino, assolutamente non all’altezza del clamore che l’ha preceduto e delle aspettative sul suo futuro a livello di premi e riconoscimenti prospettati.


Dopo Animal Kingdom mi permetto di definirlo un piccolo passo indietro per il regista David Michôd, che si salva in angolo con qualche buona trovata e alcune inquadrature interessanti. A lui anche il merito di aver studiato l’atmosfera dell’opera Shakespeariana e di averne voluto dare un’ulteriore interpretazione che va ad aggiungersi ai vari “Romeo+Giulietta”, “MacBeth” e “Il Re Leone” (non sto scherzando, giuro: è una versione disneyana dell’Amleto).

Bravi tutti, ma non bravissimi. E forse nemmeno bravi.

A voi la parola.

© Marco Patrito

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