La terra brucia | Racconti Indigeribili

La terra brucia | Racconti Indigeribili

Scritto da Emanuele Muscolino
Illustrato da Valentina Cascio


La terra brucia

«Facciamo un giro, ti va?».
«Certo».
«Dove?».
«California».
«Partiamo».
L’anima spoglia il corpo e lo lascia nudo. L’aria del Maghreb non brucia, il vento di Gibilterra non urla, la spuma dell’Atlantico non ghiaccia, il gelo del Quebec e dell’Ontario non li sfiora, il bagliore del mezzogiorno non li acceca.
«Perché proprio qui?».
Le montagne a levante, il Pacifico in fondo, un esercito di alberi secolari.
«Devo insegnarti cosa tiene insieme le cose».
«È l’amore» dice il corpo.
«No, è l’economia. Avrei voluto fartene cento, di occhi. Ma sono strumenti energivori e vulnerabili: due andavano bene. Lo stesso feci con le orecchie: una per conoscere i suoni, l’altra per indovinarne la direzione.
«Questo è un noce. Poiché ha bisogno di spazio, edificandolo mi assicurai che nessuna pianta gli crescesse attorno. Riempii le foglie e il mallo di juglone, una sostanza inibente: in autunno, quando foglie e malli cadono al suolo, lo contaminano e lo rendono inospitale, garantendo alla pianta spazio vitale per l’anno a venire».
L’anima coglie un mallo, lo apre e ne trae il nocciolo; fa pressione sulle valve fino a farle crepitare, liberando il gheriglio dalla morsa; ne offre metà al corpo e tiene per sé il resto, gettando il guscio ai piedi dell’albero.
«Ogni avanzo è nutrimento: clorofilla, semi e frutti dall’alto; zinco, magnesio e ferro dal basso. Il mondo vegetale offre gli steli, quello animale la carne. Il sovrappiù di carbonio nutre le piante; quello di ossigeno gli animali. Lo scarto dell’uno è il cibo dell’altro e l’equilibrio è mantenuto. Il mondo che ho creato rigenera se stesso»
Volano sui magazzini dell’Arizona, accostano cargo in volo e spiano frutti esotici infuocati oltre le lamiere; dal porto di Houston inseguono mercantili transoceanici e osservano, attraverso gli scafi, chilometri di lattine e di imballaggi, di carte e di plastiche, di flaconi e di tappi, di etichette e di spille.
«Hai messo i frutti nel petrolio, tu, persino l’acqua» dice l’anima.
«Dove dovevo metterla l’acqua?».
Fanno rotta a ovest, verso l’isola galleggiante del Pacifico, la sorvolano in lungo e in largo, senza vederne la fine. Salme di Barbie un giorno luccicanti e tronfie nella moltitudine degli scaffali e delle stive.
«Forse con delle grandi reti...» balbetta il corpo. «Con pazienza, si potrebbe provare. Con delle chiatte...»
L’isola si solleva dal centro, come presa da un argano, un braccio, si tira su quasi fosse un lenzuolo, un fantasma prende forma, supera le nuvole, mentre la base si ritira e scopre milioni di chilometri quadrati d’acqua. Il robot s’innalza sino alla luna.
«Ce l’hai fatta. Non lo sporcherò più» giura il corpo.
I suoi occhi languidi, tamponati da quelli vitrei dell’anima, che se ne sta quattrocentomila chilometri più su, ricambiano con speranza, ma il robot si sgretola, precipita e genera onde da seppellire il pianeta, se solo l’anima non le spingesse negli abissi, consentendo a ogni pezzo di riprendere il suo posto sul pelo dell’acqua.
«Non crederai ai miracoli» sussurra, ritirandolo a sé.
Il gelo del Pacifico gli entra nell’ombelico e nella gola, gli scende nei polmoni, gli riempie lo stomaco e il cuore. L’anima è costretta a entrargli dentro per scaldarlo.
«Perché ti sei ingabbiato?» chiede vibrandogli le corde vocali.
Il corpo trema, ma già l’anima l’ha preso, e insieme entrano nel cielo d’amianto di Beijing, avvolti da una coltre di fumo.
«Forse le bocche dei pesci prosciugano il mare?» insiste lei.
«Possiamo spostarci da qui?» risponde lui tossendo.
Atterrano sulla voragine maggiore della miniera d’oro di Kibali, a nord del Congo.
«Cosa succede se si brucia troppo?».
«Basta» esala il corpo.
«Si paga bolletta».
«Fanculo».
«Riesci a vedere?».
No, il corpo non vede che un gigantesco cratere. Il sudore gli ricopre la fronte, gli si addensa sulle ciglia, finisce nell’incavo delle palpebre, impedendogli di mettere a fuoco. Se lo asciuga come può, chiude gli occhi, ma la luce del sole lo abbaglia attraverso la pelle; prova, con i polpastrelli e con le nocche, a tamponare le ultime gocce, li riapre, finalmente vede. Vede corpi nel cratere, bimbi coperti di stracci, riesce a guardarli come fossero a un metro: hanno occhi enormi e senza vita, il cranio fracassato, le cervella esondanti. Spari di mitra e sagome che volano da ogni parte: una dozzina, a migliaia, tanti che ricoprono il fondo. Vede Mobutu festeggiare il potere, la lotta per l’indipendenza, altri morti che creano un cumulo, una pila. E navi cariche di negri che solcano il mare di cadaveri, si aprono un varco tra carni e ossa, gettano nella coltre putrescente deboli ribelli malati, e giovani stuprate e altri frustati marchiati a fuoco. La sacca è satura. Cade sulle ginocchia, il corpo, e prova a vomitarsi l’anima.
«Ti è piaciuta la California?».
La schiena ricurva, i palmi a terra, le spalle infossate e una puzza acida che gli viene da dentro, il poveraccio non replica, né ottiene consolazione.
«Dimmi qualcosa».
«Ti ho preso al mio fianco e abbiamo fatto un giro. Che vuoi?».
«Ora mi calmo, passa tutto».
Ma un risolino isterico gli deforma la bocca.
«Ce l’hai una sigaretta?» chiede in preda ai tremori. L’anima sparisce. Il corpo si siede, poi scivola su un fianco, in posizione fetale, in attesa della maledizione nucleare.
«Di che colore sarà l’esplosione? Gialla? Rossa? Azzurrina?».
Si calma, si riveste, annoda la cravatta, allaccia le scarpe, si incammina. Galoppa nel Sahara, risale il Nilo; supera Il Cairo con un saltello, cammina per altre mille miglia a sud-est, fino all’Abu Dhabi Exhibition Centre, dove lo attendono. Entra con una piroetta, acchiappa mille sguardi carichi di speranza e di paura.
«Sua Maestà chiede se è venuto da solo».
«Sono venuto da solo».
Si sistema il colletto, caccia fuori un ghigno da repertorio e alza il pugno a mezz’aria, tenendo il braccio teso. I convitati trattengono il fiato e fissano la mano come Orazi. Estrae il pollice platealmente e lo ferma a mezz’aria. Che cazzo sto facendo, pensa. Ma poiché l’estasi di paura del mondo lì riunito lo investe, attende che il sudore imbeva le fronti dei politici, e scenda lungo le vesti dei capi religiosi, e si arrampichi sulle lenti dei banchieri, e inzuppi a tutti le mutande; attende che il fetore dei corpi impregni la sala, poi volge il pollice in alto, aprendosi in un ghigno fraterno, e si fa travolgere dallo scroscio di applausi e grida. Le grandi porte della sala si schiudono all’incedere di un’arca d’avorio su ruote dorate: adagiati su un letto di foglie di banano, da una parte pesci spada, polipi, salmoni, ostriche, granchi e stelle marine; dall’altra cervi, cavalli, anatre, orsi e ghepardi; in alto fagiani, quaglie, fenicotteri, un’aquila reale in trono. Ministri, arcivescovi, generali di ogni credo e schieramento in amplesso. Lo sceicco approva.
«Prima che la festa abbia inizio, potrei chiedere una sigaretta?».
Lo sceicco si dirige alla vetrata nord, davanti a cui è posizionato un telescopio. Quando poggia l’occhio sulla fessura gli schermi della sala si accendono, mostrando il gigantesco sito petrolifero offshore.
«Queste sono le immagini dal vivo dell’Upper Zakum Oil Field, nel Golfo Persico, a cinquanta miglia da qui» annuncia il segretario. «Il mese scorso abbiamo raggiunto la soglia del milione di barili giornalieri».
Sullo schermo appare in dettaglio uno dei pennacchi della piattaforma e una fremente attesa si fa largo. Solo il corpo cerca ancora i vicini con lo sguardo:
«Ehi, smoke? Zigarette? Cigarro?».
Lo schermo si illumina a giorno. L’operatore chiude il diaframma e sulla cima del pennacchio appare una gran fiamma color arancio.
«Con questo pozzo la proiezione viene portata a un milione e centocinquanta mila barili» dice il segretario, mentre i camerieri distribuiscono champagne e i convitati si dedicano a brindisi e convenevoli. Lo sceicco, sornione, abbandona il telescopio e si unisce agli ospiti. Solamente il corpo è rimasto imbambolato, in mezzo alla sala, a fissare l’enorme fiamma che brucia, brucia, brucia. 

© Racconto di Emanuele Muscolino | Illustrazione di Valentina Cascio | Editing di Paolo Perlini 


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