Mondo vile | Racconti Indigeribili

Mondo vile | Racconti Indigeribili

Scritto da Andrea Cabras
Illustrato da Sara La Spina


Mondo vile 

C'era un periodo in cui andavano i western. Tutti impazzivano per i cowboy. Prendevano due o tre brutti tizi con un cappello nero, uno con gli occhi azzurri per fare l'eroe e andavamo in Spagna. Un caldo infernale, ti giuro, stare così con la telecamera sotto il sole. Quello con gli occhi azzurri lo chiamavano qualcosa come John il Leggenda, quelli brutti con un nome messicano e li si faceva sparare. Fatto il film. Erano altri tempi. C’era la roba artistica, raffinata, ma c’era anche la roba un tanto al chilo. E la gente la guardava. Si facevano bei soldi.
Vabbè, comunque, io facevo le riprese e un periodo stavo messo maluccio. Bevevo un po’ troppo, in quei tempi girava di tutto. Non avevo un lavoro. Un giorno mi chiama un mio amico, di quelli che a Cinecittà ci stava infognatissimo, le mani ovunque, e mi dice:
«Oh guarda che ci sta un regista, un certo Ferruccio Rossetti, in arte Frederick Rubens» - sai, a quei tempi tutti avevano un nome in americano – «che cerca qualcuno per filmare una cosa».
Dico: «Ci sta, ok, dimmi quando».
Ma lui mi fa: «Guarda che quello è mezzo scemo, fuori come un balcone, ma paga bene. Ha fatto un po’ di tutto, qualche peplum negli anni ‘50, un po’ di roba zozzona, ma ora sta in fissa coi Mondo, ci fa i soldi».
Sa cosa sono i Mondo, signorì? Mettevano insieme filmati di roba presa un po’ a casaccio, roba scioccante, qualche ammazzamento, scheletri, tribù selvagge, gente che se mena. Certa roba vera, certa roba inventata. Una bella musichetta di sottofondo, un commentino di qualche doppiatore e via. Li intitolavano tutti Mondo qualcosa, Mondo Cane, Mondo Selvaggio. E sapessi la gente che se la guardava, quella robaccia. Vabbè, comunque ‘sto Ferruccio molta roba se la pescava da chissà dove, aveva un archivio di schifezze che non ti puoi nemmeno immaginare, e altra roba se la filmava lui, era il suo marchio di fabbrica. E lì c’entravo io.
Aveva una villa a Fregene, questo qui. Vado lì un giorno, mi fa entrare in casa. Oh, sembrava di entrare in un museo. C’aveva scaffali fino al soffitto di bobine, tutte etichettate, ‘na roba impressionante. Poi pieno de ninnoli, de cazzate africane, asiatiche. C’aveva una testa di squalo in salotto, non sto scherzando. Questo qui col sigaro in bocca, tutto vestito da safari, mi dice:
«Oh, mi serve qualcuno che mi accompagni in un’isola al largo della Guyana, ci stai?».
«E che ci sta al largo della Guyana?», gli chiedo io.
E quello: «Lo vedrai quando arriveremo lì, sto lavorando a un nuovo film, Mondo Vile».
Vabbè, chiedo della paga, ci sta, onesta, metà subito, metà quando torniamo. Al tempo non avevo famiglia, manco ora se è per quello, però ero giovane, quindi ‘sticazzi, andiamo. Tempo una settimana ed eravamo in aereo. 
Siamo io e lui, basta. Ferruccio è un pazzo furioso, si è acceso il sigaro in mezzo al volo e per poco non si attacca con la hostess. Mi fa una testa così sulle inquadrature, sullo stile di Murnau o chi era, ma io che ne so, dimmi dove puntare la telecamera e non rompere i coglioni. Non ti dico che volo abbiamo fatto, un delirio, su questo aereo che avrà fatto la guerra, Fiumicino - Georgetown. A un certo punto l’aereo fa un balzo, saremo stati in mezzo all’Oceano, fa un balzo e mi caco sotto. Mò muoio per qualche lira, mi dico. Vabbè, poi atterriamo, grazie a Dio. Da lì, prendiamo una barca per andare all’isola, praticamente un peschereccio. 
L’Oceano fa paura, non so se l’ha mai visto. Blu, quasi nero, infinito. Ho visto certe onde che non ti sto manco a spiegare. A me il mare non piace, mi è venuto pure da vomitare, ma mi sono trattenuto per non fare figuraccia di fronte a Ferruccio. Metti che non mi chiamava più. Però quello stava lì a guardare il mare e a fumare il sigaro, che gli fregava.
Comunque, arriviamo in quest’isola, uno scoglio praticamente, però c’aveva una di quelle foreste che vedi nei film. Con le scimmie e tutto quanto. Finalmente mi spiega qualcosa, mi dice:
«Qua in mezzo alla foresta ce sta un lago speciale, andiamo a filmare quello».
«Ok» dico, prendiamo e entriamo in ‘sta foresta. Davanti un indigeno di là con un machete, dietro Ferruccio che fumava, poi io con tutta la roba dietro.
Camminiamo in mezzo agli alberi per non so quanto, poi arriviamo a ‘sto benedetto lago. Un paradiso, c’era fresco, gli uccelli che cantavano, pure una cascata. Io ero sudato da far pietà, Ferruccio fresco come una rosa di campo, sembrava fosse appena uscito dal barbiere. Vabbè, ne approfitto e mi faccio un bagno. Il lago era di un colore scuro bellissimo, liscio come un piatto, altro che Oceano. Butto la roba e manco il tempo di bagnarmi un piede nell’acqua che quello zulù di indigeno inizia a urlare in quella sua lingua strana, tutto scioccato. E che sarà mai, dico io. Mi si avvicina Ferruccio tutto serio e mi dice:
«Paolo, ‘sta roba è sacra, non ti permettere».
E vabbè, mi sono giocato un regista, fatta la cazzata. Comunque, piazziamo le tende per la notte, perché dovevamo filmare l’indomani. 
Alle cinque del mattino Ferruccio ci butta giù dalle brande. Ci beviamo il caffè e piazzo tutta l’attrezzatura davanti al lago. Non capisco che devo fare, sto lì ad aspettare. A un certo punto, Ferruccio spegne il sigaro e mi dice:
«È ora, accendi tutto».
Io dico: «Ora de che?» ma poi capisco tutto.
Appena il sole supera la linea degli alberi, illumina il lago che diventa trasparente, vetro, ti giuro. Quello che ho visto quel giorno non me lo scorderò mai, finchè campo. C’era una fossa al centro di questo laghetto, piena di teschi. Solo teschi, non c’era tutto il resto. Arrivavano quasi alla superficie. Bianchissimi, brillavano quasi, una cosa terribile. E io che ieri ci stavo per cacciare il piede dentro, quasi vomito. Ma Ferruccio mi dice zuma qui, inquadra lì. Mi ha fatto avvicinare più che potevo. Io con i piedi a mollo, che vedevo dall’ottica tutte queste orbite, sti denti, tutti impilati uno sull’altro, quell’indigeno che cantava e piangeva, Ferruccio che non faceva che ripetere:
«È fantastico, non credo ai miei occhi».
Meno male che dopo qualche minuto il sole se n’è andato e il lago è diventato scuro, perché non ce la facevo più. Avevamo una ventina di minuti di girato, suppergiù. A Ferruccio andava bene, così mi ha detto. Svegliamo l’indigeno che se ne stava lì a pregare e piangere chissà cosa e ce ne siamo andati. Non ha smesso nemmeno sul peschereccio. Non vedevo l’ora di rivedere Fiumicino.
Oh, io non ci credo a ‘ste cose, malocchio e tutto il resto. Ma quando torno da lì, non me ne va bene una. Lavoro zero, sembra che non servo a nessuno. Ogni volta che chiudo gli occhi, vedo ‘sti cazzo di teschi. Ogni notte sogno di cadere in mezzo a quel lago. Ho quella nenia che cantava quel selvaggio in testa. E per di più, quel Ferruccio non me paga. A un certo punto, prendo e vado a Fregene. Fatto sta che arrivo lì e la casa non c’è più. Chiedo a un vicino di casa. ‘Na roba da non credere, mi dice. Questo qua s’era chiuso in casa per montare ‘sto film, perché faceva tutto a casa sua quel rincoglionito, con forbici e tutto, poi non si sa come, sicuramente stava fumando, parte l’incendio. Tutta quella celluloide, quella robaccia che teneva in casa, il fuoco s’è magnato la casa. E pure a lui. Prendo la macchina per tornare a casa e mi becca un camioncino che ha bruciato lo stop. Macchina sfasciata, io mi sono fatto tre mesi d’ospedale e guarda un po’ come cammino quarant’anni dopo.
Io ripeto, a ‘ste cose non ce credo, ma mi so’ sposato e ho divorziato, son tutto sciancato, vivo in ‘sto buco, prendo la sociale e faccio la fame. A quell’altro forse gli è andata bene, almeno sta al Verano. A volte mi chiedo che fine ha fatto quel selvaggio lì, povero Cristo. Non era una roba che dovevamo vedere, e quello ce voleva fare il film.
Mo’, me li dai ‘sti duecento euro, o no? 


© Illustrazione di Sara La Spina | Racconto di Andrea Cabras | Editing di Chiara Bianchi 


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