No Big Deal è un gioco di un bunch of guys qualsiasi i cui sogni non arriveranno a modificare la realtà. La verità è che crescere non basta: la crescita non li salverà. Non da sola.
Recensione di Esther Bondì
Il romanzo d’esordio di Rachele Salvini, edito da Nottetempo, si insinua nelle vite di adolescenti che di buono non hanno nulla. Impossibile affezionarsi anche a solo uno dei personaggi di No Big Deal, perché nessuno di loro ha qualcosa a cui tiene davvero. Pur nell’estenuante sforzo per l’affermazione di sé stessi né Lena, né Dixon, né Ale, né Clive, né Tale, né Kurt riflette davvero sulle proprie azioni e le relative conseguenze, nessuno di loro impara dai propri errori.
Famiglie disfunzionali, violenza, alcolismo, droga, abbandono, tradimento: le sfide che gli adolescenti di questo romanzo devono affrontare non sono semplici, ma invece di imparare dai propri errori – e da quelli dei propri genitori – essi sembrano vivere in una gabbia di egoismo che tiene imprigionate le proprie scelte e non fanno che girare intorno alla stessa grande scusa: niente di serio, niente di ché.
La violenza è il vero continuum all’interno del romanzo, il massimo comune divisore spartito tra tutti i personaggi assumendo e le sembianze dell’ineffabile. Nessuno dei personaggi si libera del proprio peso, e in questo senso, il personaggio-simbolo di un vittimismo dal quale è impossibile uscire è sicuramente Dixon, coprotagonista insieme a Lena, le cui vite si alternano di capitolo in capitolo fino al loro preannunciato incontro a Londra.
Dixon è un bambino scozzese, sensibile e segnato dal senso di colpa, esposto da sempre alla violenza di un padre manesco e alcolista. L’afasia di Dixon si perpetra nei suoi gesti istintivi, nelle sue decisioni autodistruttive: il suo silenzio sembra dichiarare che finché non è possibile dare un nome alla violenza, non sarà possibile fermarla.
La catena della violenza, nella sua semplicità e miserabilità, si incarna in Tinco, lo scorpione che il padre di Dixon compra come animale domestico, ennesima trovata per scherzi sadici e di cattivo gusto ai danni del figlio e di sua moglie. Tinco è insieme vittima e carnefice, come in fondo è ogni personaggio di No Big Deal, e il suo pungiglione avvelenato è un’arma sempre in agguato che non lo salva da una fine grottesca e improvvisa. Fra le vie sporche di Livorno e quelle di Londra, le vite di questi adolescenti rimangono schiacciate da una violenza di cui, col tempo, diventano colpevoli.
L’autodistruzione e l’autosabotaggio sono conseguenze dirette di una violenza inespressa e mai confessata. Lena, l’altra coprotagonista del romanzo, ragazza che vive il disagio di un corpo poco perfetto e dalle grandi ambizioni lavorative, osserva il proprio corpo cadere a pezzi, squamarsi, perdere strati traslucidi di pelle che non trovano posto nel mondo se non dentro di sé. Abbandonarsi, lasciarsi andare non è una scelta contemplabile per questi teenagers: una volta perse le proprie squame, Lena se ne riappropria, mangiandole una per una, con metodica assennatezza.
Ale, nel suo delirante tentativo di annientamento di sé tramite l’assunzione febbrile di droghe, è forse l’unico personaggio abbastanza assurdo da avere la lucidità per esprimere i propri sentimenti. Mentre i suoi compagni di vita rimangono inerti di fronte alla sua autodistruzione – alcuni di loro addirittura la incitano, regalandogli l’eroina – Ale sembra non avere l’esigenza di contenersi nel recinto dell’egoismo. Obliato e annebbiato dalla cannabis, Alexander Green (di nome e di fatto: Green come l’erba che fuma dalla mattina alla sera) scavalca col suo passo goffo i tradimenti dei propri amici e le loro grettezze. Ale non ha senso di vendetta né di orgoglio: quando Dixon confessa che suo padre è in ospedale, Ale è al suo fianco, nonostante tutto.
La spontaneità fa posto a una costante paura di diventare adulti, che si riverbera nelle dinamiche dei personaggi, talmente terrorizzati di non essere accettati dal prossimo da restare incastrati in un eterno e continuo cliché.
La musica accompagna la storia dall’inizio alla fine. Rachele Salvini crea una vera e propria playlist diluita in venti capitoli, una colonna sonora che dà una voce concreta alle azioni dei personaggi. Ad esempio, quando il padre di Lena rimorchia la cassiera di una modesta pasticceria di Livorno davanti alla figlia, lo fa a parole di musica: I’m On Fire di Bruce Springsteen diventa, nel fischio del padre, una dichiarazione di intenti velata e volgare.
La voce dei personaggi si nasconde così in continuazione, perché avere una voce significherebbe prendere una posizione: i personaggi di No Big Deal non parlano di sé perché parlare significherebbe aprirsi, esprimersi, confessarsi. L’unica soluzione è un linguaggio convenzionale, colmo di cliché e luoghi comuni, un balbettio a cui si accompagna la musica. La musica diventa così il grande schermo, la scusa dietro cui nascondere se stessi e le proprie vergogne. I personaggi si esprimono con dialetti odiati (livornese o scozzese), parolacce, gerghi che vanno dallo slang a un’inglese cristallizzato fatto di mate, yeah, fuck, shite, girlfriend and boyfriend, that sucks. Il loro vocabolario è spezzato, interrotto, convenzionale, un linguaggio che non dice, non parla, non affronta. Nessuno vuole andare oltre, nessuno si spinge fuori dai propri confini. Nessuno può davvero esprimersi, parlare di sé: e, se ci prova, non ci riesce.
No Big Deal è un romanzo di formazione di cui non si può mai vedere la fine che si vorrebbe. Anticipandosi dal primo momento, il lettore non può fare a meno di sperare che qualcosa cambi, si fermi, che uno dei personaggi esca dal circolo vizioso della violenza e si confessi finalmente ad alta voce, che qualcuno dica all’altro in maniera sincera: ti voglio bene.
Ma Rachele Salvini non ci regala illusioni. In un continuo sforzo di emancipazione, i personaggi continueranno a tentare miseramente e a fallire, fino alla fine, fino al punto di non ritorno: la morte.
Titolo: No Big Deal
Autore: Rachele Salvini
Casa editrice: Nottetempo
Pagine: 396
Pubblicazione: 19 aprile 2024
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