Spaghetti alla corsara | Racconti Indigeribili

Spaghetti alla corsara | Racconti Indigeribili

Scritto da Ilaria Petrarca 
Illustrato da Federica Crispo


Spaghetti alla corsara 

Il fuoco è azzurro, non è rosso come i capelli di Mirea. Ha acceso il gas sotto la spaghettiera. Le fiammelle che leccano la base d’acciaio. La scaldano, con pazienza, un grado dopo l’altro da zero a cento e oltre. Ne ha contate trentadue intorno al più grande e quindici intorno a quello piccolo. Dentro la pentola l’acqua è fredda e ferma.
Con la mano destra abbassa il coperchio e passa rapida al coltello sul tagliere. Ferma uno spicchio d’aglio tra il pollice e l’indice sinistro e lo trita finemente. La lama batte sul piano di legno una sequenza irregolare e netta. Colpi secchi che somigliano ai rintocchi di un tempo senza mezze misure. Pacche, sferzate, schiocchi.
L’aglio sprigiona un liquido sconveniente che le si attacca ai polpastrelli e lucida la lama. L’odore intenso disturba le narici mentre il trito scivola sul tagliere, inclinato, e trabocca oltre il bordo inferiore. Lo riversa in padella, dove un giro d’olio scende dal beccuccio di un’ampolla. Accende una seconda fiamma, una corona di ventiquattro dentini ardenti.

Il fuoco è azzurro, non è rosso come la passata di pomodoro. La crema di ciliegini è così densa che Mirea non ci vede attraverso. La fa scivolare dal margine del contenitore di vetro alla padella con l’olio caldo. È un tappeto magico che impreziosisce di foglioline di basilico, polvere di pepe, scaglie d’origano, pezzetti di acciughe. L’olio sfrigola impaziente e fa salire un misto di aromi mediterranei.

Il salino le riporta alla mente il mare e la risacca. Le appare l’immagine della spiaggia, là dove camminava scalza. Le appaiono gli sparuti gigli selvatici che crescevano nelle dune di sabbia chiara, scottata dal sole di mezzogiorno, e aprivano petali bianchi e incerti. Arrivava l’ora in cui sulla veranda della casa di legno bianco, le faceva trovare una porzione di spaghetti alla corsara. “Mangia” era scritto sul biglietto accanto al piatto, e sapeva che lui non avrebbe accettato rimanenze. L’uso delle posate e l’attenzione a non sporcarsi erano dimostrazioni di ubbidienza più che osservanza al galateo. Se non avesse seguito le regole, l’avrebbe incenerita con il suo sguardo color del fuoco, che per Mirea è azzurro e non rosso.

Gira la salsa con un cucchiaio di legno dal manico bruciacchiato sulla punta. Solleva il coperchio dalla pentola, il quale sussulta e oscilla generando un rumore metallico. Il vapore sbuffa fin sulla cappa, che avvia scorrendo l’interruttore di plastica. Il rumore bianco della ventola copre i borbottii dell’acqua che si agita, bolle, evapora.
Lei riduce l’intensità della fiamma, prende un pizzico di sale grosso e poi no, lo ributta nel barattolo, pensa che ci sono già le acciughe, sarebbe inutile insaporire di più. Prende il mazzetto di spaghetti e li mette a cuocere, dritti nella pentola. Steli di fiori senza petali che piano piano si incurvano e si attorcigliano, sbiancano in un groviglio annegato nell’amido che spumeggia sul pelo dell’acqua. Gira di nuovo la salsa. Il basilico si è scurito, le acciughe si sciolgono piano.
Si porta il cucchiaio alla bocca e assaggia. Punge e scotta. Dopo quei pranzi aveva la lingua gonfia di pepe, le labbra infiammate e insensibili, riarse dal sale del mare e della pasta. Troppo. Lui le lasciava da bere un bicchiere di aranciata. Succo di arance spremute a mano. Lo aveva pregato mille volte di portarle un bicchiere d’acqua, o di vino, o di sidro, ma ogni richiesta era stata ignorata. Una volta, per ripicca, aveva lasciato il bicchiere pieno. Era tornata a raccogliere le conchiglie sulla battigia con la pancia piena e il tormento della sete. Dentro, l’orgoglio di quell’affronto. Se n’era pentita quando lui era andato a cercarla, in un orario inusuale, e aveva fatto saltare il sistema di misurazione del loro tempo quotidiano imponendole di bere la spremuta.
Il fuoco è azzurro, non è rosso come gli spaghetti scolati nella padella. Serpentelli di grano duro ancora al dente che si tirano l’un l’altro e si portano dietro schizzi d’acqua di cottura e sugo.
Spegne il fornello della pentola e ravviva quello della padella. Salta la pasta e il vapore aromatico le stimola la salivazione. Spolvera la superficie di formaggio grattugiato le cui briciole si fondono in un reticolo elastico.
Si lava le mani, le asciuga e le annusa: la pelle tratterrà l’odore d’aglio fino a sera. Lega i capelli in una treccia e siede a tavola a ginocchia unite. È convinta che lui sia stato inghiottito dalla sabbia e comunichi attraverso la forma delle conchiglie. Quando crede di aver decifrato un messaggio cucina la sua ricetta preferita e mangia.
Mirea allunga la mano sulla pasta e pilucca un’acciuga. Sente il pepe nelle narici e il sale ai lati della lingua. Il gasteropode oggi le ha annunciato dei cambiamenti, perciò si versa mezzo calice di vino prima di affondare tre dita negli spaghetti.


 © illustrazione di Federica Crispo | Racconto di Ilaria Petrarca  | Editing di Chiara Bianchi 


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