Naufragio | Racconti Indigeribili

Naufragio | Racconti Indigeribili

Scritto da Daniele Varelli 
Illustrato da Angelica Bettoni




Naufragio

La nave salpò da Cadice il 17 di maggio dell’anno 1589, durante una limpida giornata che prometteva i migliori auspici per il nostro viaggio. Qualche tempo dopo, però, si verificò uno di quei fatti solo all’apparenza insignificanti, ma che in realtà si rivelano, alla luce di quanto avverrà poi, pieni di senso profetico. Contrariamente al volere dei marinai, il secondo ufficiale, sulla base di un’usanza italiana, aveva voluto portare sulla nave un gatto, come portafortuna e per cacciare i ratti.  Un giorno l’animale fu scoperto nella cambusa a sbranare una sfilza di salsicce di porco. L’equipaggio, dopo averlo catturato e torturato, lo uccise e lo gettò in mare.

L’esecuzione del felino venne subito dimenticata e il viaggio procedette tranquillo, fino a quando i buoni venti che sospingevano la nave cessarono improvvisamente. Il mare piatto e la completa assenza di nubi, anziché rasserenarci, ci resero inquieti, perché sapevamo che questo tipo di condizione altro non è che il preludio a una tempesta. Così avvenne e fu un pandemonio come mai avevo affrontato durante tutti i miei viaggi sull’Oceano. Alla partenza, la nostra cupidigia ci aveva fatto caricare la stiva oltre misura, nella speranza di guadagnare il più possibile dal commercio nelle Indie. La nave, invece, così appesantita, venne squassata senza speranza e si inabissò in pochi attimi, insieme a tutti gli uomini a bordo. Solo io riuscii a liberarmi dalle vesti ed a gettarmi nudo fra le onde, certo di andare incontro alla morte.

L’istinto vitale volle invece che mi aggrappassi a un frammento della nave e che mi salvassi. Di quanto avvenne dopo, non conservo quasi ricordo, se non come di un sogno a cui la memoria si afferra, cercando di non soccombere. Dopo una sovrumana lotta con le onde, durante la quale ebbi la sensazione di annegare non una, ma più volte, il mare si calmò. Ricordo un barile carico di ratti che galleggiava a poca distanza da me, come una nave abilmente guidata da un esperto pilota. Non persi di vista l’improvvisata scialuppa dei roditori, sperando che la terra fosse vicina. Così era, infatti, ed entrambi approdammo su una costa sabbiosa. I ratti si dispersero fra le dune, squittendo di gioia, mentre io mi abbandonai esausto sulla spiaggia e persi i sensi.

Al mio risveglio, mi misi dolorosamente a sedere e con grande sorpresa, vidi un’innumerevole colonia di gatti di ogni colore ed età, sdraiati al sole, oppure intenti i più piccoli a ruzzolare fra loro, i più grandi a schermaglie amorose, duelli e cacce al gabbiano. Rimasi a lungo a contemplare lo strano spettacolo di quella compagnia, che da allora sarebbe stata l’unica a me riservata, su quello striminzito isolotto dal quale non si vedeva alcun'altra isola o costa.

Ho a lungo meditato da dove provenissero questi gatti e ritengo che fossero anch’essi naufraghi di un’altra nave. Probabilmente fu all’inizio un piccolo gruppo, forse solo una coppia, poi moltiplicatisi in quello che per essi rappresenta un vero e proprio Paradiso Terrestre, prodigo di uccelli marini. Per quanto mi riguarda, mi cibo di uova raccolte a prezzo di dolorose beccate sul mio corpo nudo, e di molluschi crudi e disgustosi. Lento, goffo e sprovvisto di zanne ed artigli, sono inadatto per natura all' arte della caccia.

I felini hanno creato sull’isola un regno fiorente, al quale però non appartengo, né come ospite, né come vassallo. Mi guardano con indifferenza, arricciando la coda e socchiudendo gli occhi. Talvolta mi concedono delle brevi fusa, ma è un attimo. Se provo ad avvicinarmi, fuggono con agili balzi. Gli unici a dedicarmi la loro curiosa ed ingenua attenzione sono i cuccioli, che si fanno prendere senza paura. Tenendoli nel palmo della mano, sento il loro cuore battere mentre miagolano, sotto lo sguardo allarmato delle madri. Li depongo allora a terra ed essi si allontanano con la loro buffa andatura.

Senza la speranza, è impossibile trovare l’insperato, disse Eraclito. Nessun altro umano sbarcherà mai più su quest’isola senza nome e presto anche io la abbandonerò, insieme al mio corpo ormai ridotto a uno scheletro. Ogni giorno che passa mi rende più debole e dunque più vicino alla mia liberazione. Mi rammarico solo di non poter scrivere una memoria di quanto mi è accaduto. Tutto questo resterà solo nella mia mente e alla mia morte, forse già domani, la mia mente non esisterà più. 

Mi riscuote da questa tetra riflessione un senso di calore morbido e inaspettato, mentre i gatti nel buio si stringono al mio corpo, avvolgendomi come in una pelliccia di ermellino. Mi addormento ripetendomi un altro aforisma eracliteo: morte è quanto vediamo stando svegli, sonno quanto vediamo dormendo.


 © illustrazione di Angelica Bettoni | Racconto di Daniele Varelli  | Editing di Chiara Bianchi 


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