© Un racconto di Luca Crisci - Illustrato da Chiara De Martin
Make Yourself Great Again
Poi, i miei amici aprirono il bagagliaio della Opel Corsa nera di Jex {all’anagrafe Maria [sta combattendo duramente con le istituzioni varie, zompettando di palazzo in palazzo, sprecando un mucchio di soldi in benzina; i miei tentativi di dissuaderla dal cambiare nome in maniera ufficiale si sono rivelati non solo una perdita di tempo ma motivo di frizione nel nostro rapporto di decennale amicizia (le nostre madri erano colleghe di lavoro e buone/ottime amiche da prima che nascessimo) e causa probabile della situazione in cui finii; disse, mentre mi metteva lo scotch sulla bocca (le mie caviglie erano già ben strette da uno spesso fil di ferro, e le mie mani, come prassi impone, dietro la schiena nella medesima maniera) e sembrava insensibile al mio volto pieno di lacrime: un-giorno-mi-ringrazierai]}, utilizzarono un taser (che tra l’altro comprarono specificatamente per l’occasione e questo dimostra la premeditazione – che loro chiamano “preoccuparsi per me”– di tutta la faccenda); a livello pratico l’esecutore in questione fu Marco, mio grande amico sin dai tempi delle scuole superiori, giocavamo a calcio insieme, io ero un semplice comprimario mentre lui un possibile calciatore di serie A [non prese per nulla bene il fallimento in tal senso e non posso escludere che il modo in cui – con faccia rabbiosa – venne contro di me, che supplicavo di perlomeno “parlarne” (in quel momento sostenere ancora una volta di non aver bisogno di quel tipo di percorso terapeutico – o meglio, di nessun percorso terapeutico perché non avevo nessun problema da risolvere a livello psicologico – sarebbe stato interpretato come un affronto e soprattutto come un atteggiamento ostile, di rifiuto, in merito all’inizio di un percorso terapeutico – usando le parole di Jex/Maria “un segnale inequivocabile di resistenza e la prova provata di grandi difficoltà nell’aprirmi, parlare dei miei Veri problemi, e srotolare il groviglio di paure che si trova dentro di me”) fosse la prima grande manifestazione di tutto quell’odio nascosto che da sempre credevo serbasse nei miei confronti].
Nelle settimane e nei mesi passati Jex/Maria, Marco ed Eli – per descriverla basta dire che tutta la sua personalità si basa sul fatto che è antifascista-progressista-europeista e che indossa sempre delle mollette colorate stile bambina – iniziarono progressivamente a non ridere più alle mie battute ironiche, e quando un giorno chiesi il motivo mi dissero che dopo un confronto tra loro erano arrivati alla conclusione che quel mio modo di scherzare “un po’ nevrotico”, utilizzando le parole di Eli la quale si corresse poi con “decisamente nevrotico”, era sintomo di un Mio malessere personale, una maschera che utilizzavo per nascondere i miei veri disagi e Traumi che risalivano all’infanzia; dal modo in cui i Miei Genitori mi avevano trattato durante l’infanzia.
Jex/Maria disse che era “curioso” il fatto che io non ricordassi cose-spiacevoli che i miei genitori mi avevano fatto.
«Fede, noi siamo tuoi amici e ti vogliamo davvero un mondo di bene, però devi capire che se non affronti un percorso terapeutico e di risoluzione dei Tuoi problemi, e qui tutti noi stiamo lavorando su Noi Stessi, diventa difficile per noi essere sulla stessa lunghezza d’onda…».
Vi risparmio il discorso completo e l’arco narrativo del nostro litigio in cui scoppiai a piangere; con il volto già pieno di lacrime affermai che andare dagli psicologi fosse una assoluta perdita di tempo e che loro erano delle fottute sanguisughe assetate di denaro pronte ad arricchirsi sui problemi della gente e io non avevo bisogno, mai-e-poi-mai, di parlare con un professionista per risolvere i miei presunti problemi passati; dissi anche che, a dirla tutta, sebbene a loro potesse risultare strano, io con i miei genitori avevo un bel rapporto e mi avevano sempre amato e trattato con rispetto.
«Questa tua difficoltà di metterli in discussione è il vero problema, Fede. Non te ne accorgi ma questo rapporto morboso con loro ti sta ingabbiando, non ti permette di sviluppare la tua intelligenza emotiva. In quanto tuoi amici dobbiamo fare qualcosa per aiutarti».
Scoprii cosa intendessero per aiutarmi, precisamente, solo una volta arrivato nello studio del Dottor Reix – Reix era diventato il suo nome ufficiale nei documenti dopo una lotta estenuante con le istituzioni che gli tolse ogni energia e, a detta sua, ogni possibilità di costruirsi una famiglia; non c’è nemmeno bisogno di dire che Jex/Maria o Maria/Jex lo considerava un profeta; una sera mi disse che aveva intenzione di chiamare sua figlia o suo figlio Reix, e quando le chiesi cosa avrebbe fatto se suo/a figlio/a avesse deciso un giorno di cambiare nome andò su tutte le furie e non mi parlò per circa una settimana –, quando potei respirare con la bocca anche se tutti sanno che è sbagliato.
Mi disse: «Buongiorno Federico» e mi strinse forte la mano per intimidirmi.
La sua dentatura era perfetta. Indossava una camicia semplice, solo che era una Creisini, in vendita a un prezzo medio di 700 euro. Sul suo polso sinistro, un orologio con diamanti incastonati ma la mia attenzione si spostò sulla sua mano destra: teneva seminascosta una siringa piena di chissà quale liquido.
«Sei davvero fortunato ad avere persone che si preoccupano per te».
«Possiamo organizzarci per un’altra volta?».
Il Dottor Reix fece un cenno ai miei amici; un segnale che evidentemente avevano già codificato in precedenza nei cosiddetti incontri preparatori senza il malato; il segnale stava a significare bloccate il passaggio/non fatelo uscire.
In una situazione del genere, dopo un viaggio del genere, credetemi, è complicato non andare in agitazione, e nella posizione del presunto malato, è molto semplice sembrare tale anche quando si è semplicemente rabbiosi o stanchi – gli psicologi e gli psichiatri interpretano ogni cosa nello spettro del disagio mentale; non che i cardiologi o gli oncologi si comportino in altro modo – e calmarsi diventa più complicato ogni secondo che passa e ti viene voglia, davvero, di fare del male alle persone che ti stanno attorno (atteggiamenti nevrotico-aggressivi) o lanciarti dalla finestra del primo piano dello studio del Dottor Reix (atteggiamenti suicidari/anticonservativi).
E può sembrare assurdo – forse è vero che i Traumi creano un buco spazio-temporale di vuoto – ma non so proprio come finii a terra con la faccia a pulire il pavimento, Jex/Maria e Marco a tenermi bloccato, Eli a puntarmi un coltello alla gola e il ricchissimo Dottor Reix – mentre piangevo e tremavo trovai il modo di riflettere sul fatto che continuando di questo passo e seguendo la logica del tutti-dovrebbero-fare-terapia in non molti anni si sarebbe verificata una redistribuzione della ricchezza, repentina, a vantaggio degli psicologi; sarebbero diventati in maniera inaspettata i nuovi oligarchi scalzando i proprietari delle grandi multinazionali – a mostrarmi su un tablet i miei genitori scortati da due sicari dal volto terribile nei pressi di zona Bagni legati ad un grande masso; stanno per essere lanciati nel fiume proprio dal ponte che tutte le mattine attraversavo per andare al liceo. Il tutto, è banale, ha a che fare con la storia del lasciare andare i pesi vecchi e – blablablà – l’indipendenza emotiva.
Il tutto precipitò in un attimo – il tempo per un’intuizione di materializzarsi – brevissimo e indefinito, e mentre un lago di sangue usciva da me e iniziai, lentamente, con la beatitudine nell’anima, a uscire dal mio corpo diventando davvero parte del mondo, diedi un nome – quando si sta morendo le cose diventano di colpo più chiare – a quello che era appena successo: una banale seduta di death therapy.
A ognuno la sua croce; Marco il giovedì pomeriggio dalle 16:00 alle 17:00 se ne va ad accarezzare i testicoli dei cavalli per centotrenta (130) euro a seduta con in testa un cappellino rosso con la scritta “Make Yourself Great Again” presso Pet Therapy Life S.p.a.; la sera stessa riporta su un quaderno le emozioni che ha provato.

© Un racconto di Luca Crisci - Illustrato da Chiara De Martin - Editing di Chiara Bianchi
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