Provincia Blues | Racconti Indigeribili

Provincia Blues | Racconti Indigeribili

 

© illustrazione di Michela Crespi | Racconto di Giacomo di Niro

C’è una strada, di provincia. C'è una cinquantina di case ai bordi. C'è un presepe di bar sport e alfette parcheggiate di fronte e tavolini all'aperto e gente che gioca a carte. C'è un meccanico e un forno e una scuola chiusa e un negozio di barbiere. C'è un'auto che procede a voler percorrere tutta la strada e a voler sfrecciare di fronte alla ganga del bar, che si girerà pigra e automatica.
È quasi una mezza sera di una quasi primavera di un presente che è già futuro di fatti veloci e storie di telegiornale. C'è una storia che è successa e che è finita. Impolverata dalla scia dell'auto nera che va.

C'erano quattro tizi tutto cuoio e jeans di fronte all'ufficio postale di una città di provincia.
C'erano, in un imperfetto quadrato zeppo di paura ad ogni vertice, zeppo di occhiate di accordo sul segmento di ogni lato. 
«Siete pronti?» disse il Primo al Secondo, al Terzo e al Quarto. 
«Sì» disse il Secondo al Primo, guardando il passamontagna del Terzo. 
«Pronto!» disse il Quarto guardando il Secondo che fissava qualcosa. 
«Dammi il tuo» disse il Terzo allungando il suo passamontagna al Secondo. «Bene» disse il Primo. 
Quelle strade di provincia, così vuote e tristi. Era un piacere pensarle da percorrere, con i quattrini negli zaini, con una sigaretta in bocca, gli occhiali da sole, sfrecciando urlando, con le marce che guaivano e tacevano, una dopo l'altra, fino alla litania dell'ultima, mentre i palazzi mutavano in campagna e la campagna in bosco e via lontano. Quei quattro tizi sembravano bluesmen arrampicati su scale in Mi7, in equilibrio su variazioni e assoli, dentro un clubbino di fumo e noia,tra ubriachi e qualche cuore rosso che cercava di battere forte, mentre scolorava nel rosa pallido dell'abitudine. Allora, in quel momento che tra birre e fumo e suono si creava un perfetto equilibrio, lasciavi roteare la testa sul collo, lentamente, e iniziavi a pensare che forse, al fondo del locale c'è una porta che butta fuori, nella strada che va lontano. Tanto quelle note ormai le hai dentro e saranno un buon bagaglio, non una maledetta palla di piombo alla caviglia.
«Ricordate: è facile. Nessun rischio, nessun problema. A meno che non lo creiamo noi. Si entra, si puntano le pistole» tutti toccarono le pistole che avevano «si chiedono i soldi. Quelli ci danno i soldi, si sale in auto, si parte. Allora si riderà anche e si beve una bottiglia. Fino ad allora si infilano i fatti uno dietro l'altro. Tac, tac, tac, come passi per andare da qualche parte» disse il Primo. Il Secondo, il Terzo e il Quarto annuirono, impauriti. 
«Non dovete avere paura» aggiunse il Primo, che era uno che leggeva bene le facce della gente, anche quando erano infilate in un passamontagna. 

«Devo pisciare» disse il Terzo, quello del passamontagna stretto. 
Quando vuoi ballare devi pur trovare qualcuno che suoni la musica. E se non ce n'è di bravi devi accontentarti di chi ti capita sotto mano. L'importante è concentrarsi sulla danza, sui movimenti che diventano legge e nessuna stonatura riuscirà a tirarseli nel gorgo. Con questa disciplina si arriva lontano, si tengono in piedi i giochi, anche in mezzo al vento più forte che c'è. Il Primo lo sapeva. 
«Pisci dopo, andiamo». 

«Centomila, duecentomila...» contava un impiegato, mentre la porta si apriva e faceva entrare gli ultimi clienti della giornata. Clienti incappucciati, clienti con delle pistole e con le gambe larghe. Clienti male intenzionati. Quattro bluesmen che si allungavano su tutta la linea del palco, pronti ad attaccare una canzone di quelle che ti scaldano il pubblico. L'impiegato pensò alla sua ragazza, a quel film che lei voleva vedere e che lui snobbava. Allargò gli occhi e si sforzò di ricordarne il titolo. Quando gli venne in mente, la musica era bella che finita, l'ufficio era deserto, i soldi che contava spariti, la sua vita iniziata, da pochi istanti. Nell'aria erano rimaste due o tre note che il delay della chitarra aveva abbandonato a sé stesse.
Questa era stata la rapina, niente di più. La provincia è sempre banale. 

Due gatti schivarono le ruote dell'auto nera per miracolo e la città era già un ricordo adrenalinico e sudato, mentre il Secondo e il Terzo si davano pacche sulle spalle, il Quarto cercava di dare fuoco ad una sigaretta e il Primo guidava, pensando a quello che sarebbe successo di lì a poco. La campagna fuori dalle piccole città sembra gente in fila per entrare da qualche parte e loro correvano in direzione opposta. Gli alberi che sfilavano sembrava che gli chiedessero «Dove andate? Cosa cercate? Cosa c'è di più bello di una piccola città di provincia, con il suo ritmo da canzoncina di Natale? Chi vi rimboccherà le coperte quando sarete lì fuori? Chi vi bacerà e vi dirà buonanotte? Noi siamo in fila da anni per entrare e chiacchierare amabilmente di fronte al bar...». 

«Ferma, ferma lì! Devo pisciare, devo pisciare!»
Il Primo accostò dietro una macchia di alberi e tutti scesero dalla macchina saltando e facendo smorfie. L'adrenalina che pompava non gli serviva per volare in alto, ma per girare più velocemente in cerchio, sotto il cielo. Il Primo, solamente, si appoggiò all'auto e li guardava e ascoltava. 
«Cazzo! Ma lo hai visto quello stronzo!! Cazzo! Cazzo!» non riusciva a dire altro, il Quarto e agitava la sua colt della Standa, plasticaccia che si atteggiava a pistola. 

«Se diceva solo una virgola gli facevo saltare il naso con un cazzotto!» urlò il Secondo.
Il Terzo si tirò su la lampo dei calzoni e si avvicinò «se queste pistole fossero state vere avrei fatto una strage» e puntata l'arma sul Secondo sparò. 

Clic fece la sua pistola. 
Clic, clic rispose la pistola del Secondo. 
Clic seguì la pistola del Quarto. 
Bam,
bam, 
bam, disse la pistola del Primo. 
Un quarto bam fu necessario per fermare i singhiozzi del Terzo, che si agitava e si premeva una mano sulla pancia che schizzava di rosso l'erba. 

Gli altri erano morti subito, senza tante scene. Le loro anime erano decollate verso il cielo, ma, stanche, si erano probabilmente lasciate ricadere sul prato umido. Il Primo si guardò in giro, come per cercarle, poi risalì in auto e andò via. Provincia blues. 

C'era una Quinta. C'è sempre una Quinta, da qualche parte, nella vita di uno. È causa, motivo, stimolo, pubblico privilegiato, musa, piscina sotto il trampolino. È fuori dai giochi, ma i giochi sono suoi e a lei torneranno, prima o poi. Era già Quinta, prima ancora che il Secondo, il Terzo e il Quarto diventassero Secondo, Terzo e Quarto. Nella provincia, il destino é così banale che forse la Quinta c'era anche prima che ci fosse il Primo. 

Il Primo fermò la macchina sotto una casa e chiamò tre o quattro volte col clacson. La Quinta uscì dal portone e corse ad abbracciarlo. Come era normale, quella donna. Come erano consequenziali le sue azioni, come erano biondi i suoi capelli e profumati i vestiti e tutte uguali le sue dieci unghie. Solo gli occhi, all'improvviso, stonarono secchi.

C'è un vecchio blues che dice che se Dio fosse stato un chitarrista avrebbe suonato la più bella delle musiche, con una chitarra d'oro, con le corde fatte d'aria, con le mani talmente veloci da diventare invisibili agli occhi di chiunque. È una cosa che vecchi musicisti raccontano a giovani musicisti, per metterli in guardia, per avvisarli che per quanto diventino in gamba saranno sempre secondi. A Dio, ma secondi. L'impossibilità della perfezione darà alla loro musica l'umanità e la realtà, il corpo che la mostrerà al mondo, l'essere sotto un cielo gli darà la possibilità di guardare in alto, ancora, per cercare quel chitarrista con la chitarra d'oro, per continuare a farli soffrire e a vivere. Ma quei vecchi musicisti sono i giovani musicisti sopravvissuti, quelli che a questa storia hanno creduto. E sono pochi. Gli altri li trovate negli ospedali, nei manicomi e nei cimiteri. Qualcuno lo trovate in provincia, a fissare occhi stonati. 

«Questa è... una macchia di sangue...» disse la Quinta. 
«Finalmente andremo via da qui» disse il Primo e già il suo orizzonte iniziava a stringere. 
«Ma... ma cosa è successo? Sei stravolto, ti tremano le mani e... questo sangue...»
«Via... io e te... via...» e l'orizzonte stringeva ancora. 
«Cazzo! Mi dici che cosa è successo?» 
«Via... abbiamo poco tempo... poi ci ingoia di nuovo... la porta non resta aperta per sempre...» e l'orizzonte stringeva ancora. 
«Ma che cazzo dici... via dove? E... il sangue...» 
Il sangue, il sangue. Il concerto era finito, la folla aveva urlato fino a sputare i polmoni, era stato perfetto, aveva suonato la vita e la morte, si era guadagnato la libertà e lei fissava quella scheggiatura sulla chitarra nuova, solo quella maledetta scheggiatura. I suoi occhi piccoli piccoli non vedevano altro, niente altro che quella microscopica scheggiatura sulla chitarra. 
Era un sogno, solo così poteva giustificare quegli occhi che non ridevano con lui, che non correvano con lui, da una parte all'altra del palco a tuffarsi nelle onde di rumore che si infrangevano sulle assi di legno. Solo quei maledetti graffi sotto la presa del jack di alimentazione. La provincia ha bisogno di un sacco di dettagli per dare dignità alla vita che scorre. 
«Andiamo...» e l'orizzonte stringeva ancora. 
La Quinta corse via e rientrò in casa. Il Primo si girò e l'orizzonte era lì ad un passo dai suoi piedi.
Un passo, luci azzurre e basta. 

La provincia è come una galera.
Sai che fuori c'è il mondo, ma se non vuoi impazzire impari a non pensarci e ti muovi tra quattro mura costruendoti lì dentro le tue fughe, i tuoi finti confini che, quando ti va, oltrepassi e nei quali rientri, per vedere che nulla è cambiato.
Ogni passo lo trasformi in un viaggio, ogni crepa nel muro in una rapina perfetta, ogni coperta puzzolente in una donna che ti stringe sul petto e ti giura che non ti lascerà mai. Fuori dalle sbarre c'è solo un'altra galera la cui finestra coincide con la tua e niente altro.
Si racconta che qualche vecchio musicista che non ha creduto alla storia di Dio, ogni tanto, si mette seduto su una panca e guarda oltre le sbarre. Guarda il cielo e pensa a chissà cosa con certi occhi che non si riesce davvero a capirli.
Se qualcuno gli passa a tiro lo prende per la manica della giacca e gli chiede una sigaretta.
«Hai una sigaretta, una sigaretta… Dio non è poi quel grande chitarrista che dicono in giro...» gli dice «hai una sigaretta?» 


Illustrato da Michela Crespi
Scritto da Giacomo di Niro


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