L'altro | Racconti Indigeribili

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© illustrazione di Irene Cavalchini


L’ALTRO 


L’esterno era sicuro.
Ne parlavano ai telegiornali, alla radio, nei salottini di quelle strane trasmissioni piene di star glitterate dagli occhi rifatti e i seni esageratamente sproporzionati.
Bionde espressioni vagamente vuote davano aggiornamenti in tempo reale su quanto tutto fosse finito in modo così incredibilmente veloce: canali diversi, stesse facce vuote, stessa disinformazione. Si chiese se gente di quella stregua venisse anche pagata e ancora peggio, si chiese se chi stava ad ascoltarla ci credesse davvero a tutte quelle stronzate. Spense la tv e la ricoprì alla buona con il telo di cotone abbandonato lì vicino, conosceva già la risposta.
La notte aveva lasciato il posto al giorno e poi alla notte successiva, all’esterno dell’appartamento il tempo era trascorso, e col succedersi dei giorni, nella presunta normalità della vita che inesorabile continuava ad andare avanti, l’esterno era diventato sicuro. 
Tutti erano nuovamente scivolati nella quotidianità con precisione quasi metodica. I sopravvissuti erano andati avanti, e lo avrebbero fatto fino a poter confinare e confondere la realtà appena trascorsa nella trama dell’ennesimo film strappacervello di Lynch o Nolan.

Il ragazzo attraversò a passi sicuri la stanza ed aprì uno degli stipetti della cucina, ne osservò velocemente il contenuto, la mano poggiata sulla maniglietta dell’anta.
Tutto era tornato a posto, gli altri lo affermavano con una tale sicurezza e un tale sollievo che era difficile non crederci. Strinse la presa sulla maniglia quasi senza accorgersene, le nocche sbiancarono per un attimo.
Il morbo era dilagato, aveva consumato carni e membra, il morbo aveva spezzato vite… come potevano pensare che tutto fosse già finito? Barricati nell’appartamento, gli inquilini cercavano ancora di sfuggire a tutte le menzogne che l’esterno tentava di propinare.
“Stiamo finendo il caffè…” mormorò, richiudendo l’anta, le nocche avevano ripreso il solito colorito rosa smunto.
L’altro stava seduto per terra con le gambe incrociate e le mani sul volto, assorbì passivamente l’informazione e il suo viso apatico assunse una nota di vaga disperazione per una frazione di secondo, appena percettibile sotto le sue dita, l’increspatura di un enorme lago in procinto di ghiacciarsi.
“Ma a noi serve il caffè” disse con voce tremante. L’informazione era arrivata, il lago si era appena ghiacciato.
Le finestre erano chiuse, la porta serrata, l’ambiente era tutto in penombra nonostante fosse pieno giorno.
Le tende, costantemente tirate, lasciavano di tanto in tanto entrare uno spiraglio di luce grigia, sporcata dal sudiciume di vetri che sembravano non essere stati lavati per anni.
Il più sicuro dei due tirò quasi impercettibilmente la tenda verso di sé, il tempo di un’occhiata verso la strada.
“Lo so” rispose. 
C’era, in quella sporcizia, un che di innaturale, di artificioso, come se qualcuno si fosse preso la briga di imbrattare le finestre di proposito, una sorta di lurida e opprimente barriera a schermare l’esterno.
“Cosa faremo?” chiese lagnoso l’altro. Era stato così fin dall’inizio, da quando era arrivato non era stato altro che un susseguirsi di domande e incertezze alla quali lui aveva dovuto trovare una soluzione.“Troveremo un modo.” Concluse, trafugando un’ultima occhiata all’esterno.
La gente procedeva per la strada a passo spedito, un piede davanti all’altro, in un’inquietante aura di normalità. Volti semicelati e sorridenti nonostante tutto, la chiamavano resilienza, volti ammaestrati alla resa come cagnolini a cui avevano insegnato a riportare una pallina inesistente che stupidamente continuavano ad aspettare. Richiuse la tenda di scatto, disgustato. Lui la chiamava idiozia, quell’aria di sprezzante quiete con cui a frotte affrontavano marciapiedi e bar e negozi di ninnoli insignificanti senza che da questo dipendessero le loro vite. Idiozia, pura e innegabile.
 “Cosa faremo?” incalzò ancora l’altro accarezzando il pavimento, coprendo con il palmo aperto la superficie lucida delle mattonelle e il suo riflesso. La sua era una domanda più rivolta a loro che al coinquilino. 
La reclusione era stata difficile per l’altro.
All’inizio l’altro aveva lasciato scorrere i secondi in silenzio, con pazienza, aspettando che questi finalmente si accumulassero… l’altro lasciava scorrere tutto con stupida e ottusa pazienza senza agire,  ma i secondi non aumentavano mai, i secondi restavano sempre e solo secondi, l’altro contava e contava ma i secondi non aumentavano mai. E la pazienza si era tramutata pian piano in angoscia e in ansia e insicurezza e paura, e i maledettissimi secondi erano sempre lì, a beffarsi dell’altro e prendersi gioco di lui, senza che questo riuscisse a trovare la forza per reagire. E non mangiava e non dormiva l’altro, perché sapeva che se si fosse distratto lo scorrere del tempo gli sarebbe sfuggito da sotto le dita, senza che se ne accorgesse, come i granelli di sabbia in una clessidra opaca. E rinunciare al cibo era stata poca cosa, rinunciare al sonno lo era stato ancora meno, il fulcro della sua esistenza erano solo quei dannati dannatissimi secondi, che imperterriti continuavano a ignorarlo. All’ennesima tazza di caffè lui e l’altro si erano finalmente incontrati, così, per caso, e la distorsione di quel tempo malato si era finalmente interrotta. Il signor Tempo aveva finalmente ricominciato a scorrere. I secondi, impauriti dalla sua presenza si erano sommati in minuti e poi in ore e giorni, ma non sarebbero mai stati abbastanza forti per spezzarlo o per beffarsi di lui, lui non era l’altro e l’altro lo sapeva, lo aveva sempre saputo. E più il tempo scorreva più Lui diventava forte, più l’altro capiva di essergli succube, di essere diventato qualcosa di diverso da sé, qualcosa di meno codardo, qualcosa di migliore. L’altro lo odiava, ma sapeva anche di aver bisogno di lui, e nel preciso istante in cui lo capì smise di guardarsi allo specchio, andò in cerca di ogni singola superficie riflettente in giro per la casa e la coprì, in un modo o nell’altro. Non riusciva a sostenere il suo sguardo.

Nonostante questo il tempo continuava a passare, dentro l’appartamento, al sicuro, niente e nessuno avrebbe potuto cambiare lo stato logico di questa cosa. E il tempo era continuato a passare, un giorno, due film, cinque tazze di caffè, quarantasette mattonelle sul pavimento del bagno: la sua vita, la loro vita era una valanga inarrestabile. Malgrado la pantomima mediatica, l’esterno non sarebbe mai più stato sicuro davvero.
“Cosa faremo?” 
Erano passati mesi, mesi, composti da settimane che erano divise in giorni, e ore, e minuti e secondi, solo grazie a lui. La loro mente era una valanga imponente, una pallina su un piano inclinato, persa in una corsa inarrestabile. Il morbo era all’esterno, loro, dentro.
E i mesi, i mesi erano prima uno e poi erano diventati due e loro, loro erano prima uno e poi due e il tempo continuava a passare sopra le quarantasette mattonelle sul pavimento del bagno.
“Cosa faremo?”
E l’appartamento era scivolato in penombra, una penombra nella quale si erano rinchiusi, e le finestre, così trasparenti così lucide, così insopportabilmente esposte al suo sguardo, al sudiciume dolciastro della natura umana.
“Cosa faremo?”
La loro mente, due, tre nugoli di polvere sotto il tappeto, 47 mattonelle sul pavimento del bagno, una valanga inarrestabile in pochissimi giorni, l’esterno fuori, loro dentro.
E il sudiciume esploso ovunque, con la potenza distruttiva di una bomba ad idrogeno che uccide dentro lasciando involucri vuoti, o troppo pieni, come la carta di una merendina impastata ma ancora chiusa.
Un involucro di pelle pallida ma intatta, sudicia ma intatta e troppo piena, la carta di una merendina impastata e sudicia.
“Cosa faremo?”
Una mente salda, due, una valanga inarrestabile e la decadenza e il sudiciume su quelle finestre troppo, troppo lucide. Il mondo fuori, loro dentro. Non sarebbe mai finita davvero.
“Cosa faremo?” nessuna risposta.

 
Scritto da Nadia Caruso
Illustrato da Irene Cavalchini

 

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