Jean e le lumache | Racconti Indigeribili

Jean e le lumache | Racconti Indigeribili

Scritto da Lara Zambonelli
 - Illustrato da Federica Crispo -


Jean e le lumache

Jean aveva dieci anni e le lumache erano la sua dannazione.
Ogni giorno che Dio Mandava In Terra, Jean doveva occuparsi delle lumache. Questa espressione la riprendeva da sua nonna, e la pensava sempre così, con le maiuscole, probabilmente perché l’intero processo di fabbricazione e poi di invio dei giorni sulla terra restava piuttosto confuso e comunque impressionante.
Era il minimo contributo che poteva dare all’economia familiare, dicevano i suoi. Un'altra espressione che, insieme ai giorni fabbricati da Dio, andava ad aggiungersi a quella che Jean chiamava la Lista Confusa. E Jean sapeva di essere fortunato.
Sapeva che vivere in campagna era diverso dal vivere in città. Sapeva che innaffiare il campo di lattuga dove vivevano le lumache era nulla in confronto a quello che toccava al suo amico Mimì, il quale dopo scuola e d’estate, passava ore nella stalla che la madre aveva insistito per dipingere di rosa, un ridicolo confetto gigante.
Ne era consapevole, Jean, eppure quel compito lo nauseava. Non avrebbe saputo dire se fossero le antennine cieche a disturbarlo, o la fiducia ottusa con la quale le lumache emergevano da terra alle prime gocce del suo innaffiatoio, scambiandole per pioggia.
«Vedi Jean» gli diceva suo padre, «le lumache sono esserini molto razionali, mica come noi che ce ne andiamo in giro affannandoci. Se non sentono un po’ di umidità nell’aria, se ne stanno nascoste nella loro doppia armatura, dentro la conchiglia e sottoterra, perché sanno che al sole rischiano di seccarsi. Sta a noi invogliarle a uscire e rosicchiare almeno un pochino di lattuga, sennò quelle sono capaci di lasciarsi morire di fame, o se ne vanno a cercare un altro posto dove vivere».
Sarà, ma a Jean tutta quella finta pioggia, così puntuale ogni giorno, sapeva proprio di un imbroglio. E non solo quell’inganno meteorologico, ma anche il trattenerle in un paradiso di insalata, in modo che a quelle stupide, già pavide di natura, non passasse neanche per la testa di andarsene in giro per il mondo.
Così restavano, prosperavano, ingrassavano, si riproducevano, sotto le precipitazioni diligenti che arrivavano tutti i giorni, fra le sette e le otto di sera.
Tutto quell’innaffiare, uscire, mangiucchiare, a Jean dava la nausea. E avrebbe voluto urlare, spaventarle, dire loro di scuotersi e scappare, perché lo sapeva, lui, che correvano verso la perdizione.
Arrivato ottobre, infatti, velatosi il sole e rinfrescatasi l’aria, Jean si sarebbe trasformato da benefattore in boia. Seguendo i passi cadenzati del padre, come se arrivare per secondo avesse potuto alleggerirgli la coscienza, Jean si sarebbe armato di un secchio grigio chiaro e avrebbe cominciato a percorrere con occhio esperto quella sua bavosa popolazione. Avrebbe distinto, in quella giungla di gusci maculati, quelli che portavano il segno della condanna: un sottile bordo bianco alla base della chiocciola che si formava solo nelle lumache adulte, quindi quelle pronte.
Tutto qui, una strisciolina bianca da niente, si diceva Jean, bastava a condannare a morte.
Una volta, nel libro di storia, aveva letto di un popolo antico che usava scegliere fra i ragazzi le vittime da sacrificare alla fame misteriosa del loro dio. Il criterio era uno solo: sulla pelle dei prescelti non si doveva trovare né un neo, né una voglia o cicatrice, nessuna imperfezione, insomma, che potesse guastare la digestione di quei bocconcini prelibati.
Lo aggiungeva alla sua Lista Confusa: la morte cercava un segno? Ne lasciava uno, per orientarsi come gli alpinisti in montagna e ricordarsi di ripassare al posto giusto? Oppure li cancellava tutti, per dare un assaggio di vuoto?

Fatto sta.

Il tempo passava, le lumache correvano alla loro rovina fatta di trito d’aglio e di prezzemolo, e la Lista Confusa continuava ad allungarsi.

Spesso Jean sognava lumache giganti che lasciavano dietro di loro strisce di muco argenteo larghe come autostrade. Lo inseguivano, costringendolo a rifugiarsi in cima ad alberi che assomigliavano molto a insalate appiccicate a un tronco.
Una notte, mentre nel sogno stava abbarbicato fra le foglie, una mostruosa escargot fece una cosa inaspettata: si fermò a parlare con lui.
Ecco cosa gli disse, con una voce dolce e vellutata che non si addiceva granché al suo aspetto.
«Ma tu Jean, ti sei mai chiesto perché la tua famiglia alleva lumache? Hai mai cercato le cause che hanno portato i tuoi a questa guerra contro i gasteropodi?».
Jean scosse debolmente il capo, ipnotizzato dalle antenne che si muovevano come canne al vento.
«Be’, te lo dirò io, sciocco ragazzino. Fu per vendetta! Vedi, il tuo bis bis bis bisnonno, uscendo una mattina per andare nell’orto, schiacciò la nostra principessa! Il rumore atroce della sua conchiglia che andava in pezzi echeggiò in tutto il reame: sembrava di sentire le nostre stesse speranze, il nostro futuro che si frantumavano per sempre».
A questo punto la lumaca gigante si fermò e ritrasse il capo, chiaramente sopraffatta dall’emozione. Jean diede un morso a una foglia di lattuga. Preso com’era dalla storia, gli era venuta voglia di sgranocchiare qualcosa mentre ascoltava.
«I funerali della principessa durarono tre giorni e tre notti, e mai a memoria di lumaca si ricorda ce ne siano stati di più grandiosi. Ma il mattino del quarto giorno, la decisione era presa: tutto il popolo si accanì sulle colture della tua famiglia. Mangiando, masticando, divorando, distruggendo ogni cosa: zucchine, pomodori, erbe, fiori, albicocche, non crebbe più nulla nelle terre dei tuoi che non fosse martoriata dalle nostre bocche voraci».
Jean fremeva di rabbia, e gridò:
«Ma fu un incidente! Certamente il mio bis bis bis bisnonno non fece apposta a schiacciare la vostra principessa! Non è giusto che sia stato punito per qualcosa che ha fatto senza volerlo!».
Le antenne della lumaca gli si avvicinarono al volto, scrutandolo. Il ragazzino poteva sentire il freddo viscido vicino alle guance.
«E allora? E allora?» disse quella alzando sempre di più la voce, indignata. «Forse che un torto fatto senza intenzione produce effetti meno disastrosi? Quale consolazione, per il re e la regina madre, per noi tutti che ci preparavamo alla nuova reggenza, sapere che la principessa era stata schiacciata senza volere!».
Jean rimase in silenzio. Ora si sarebbe dovuto preoccupare anche di ciò che faceva senza rendersene conto? Mentalmente prese nota di quest’ultima domanda per aggiungerla alla Lista Confusa.
«Insomma» riprese intanto la lumaca con un sospiro stanco, «la tua famiglia non ci mise molto a scoprire chi c’era dietro il boicottaggio delle loro coltivazioni, e per rappresaglia cominciarono quello che sarebbe diventato il più grande allevamento di lumache del villaggio. Lo stesso che tu innaffi ogni giorno» concluse con voce grave.
Dopodiché, sparì.
Jean diede un ultimo morso alla lattuga gigante prima di svegliarsi, fradicio di sudore. Si vestì e uscì in giardino. Pensò alla vita, alla morte, alla vendetta, a tutte le domande che c’erano sulla Lista Confusa, al suo sogno e a quanto era sembrato reale lo scrocchiare delle foglie di insalata sotto i suoi denti.
Pensò a quando aveva compiuto dieci anni e come gli era sembrato che il mondo fosse a portata di mano. Un’età a due cifre, come i suoi fratelli. Come i suoi genitori. Addirittura come sua nonna, che aveva una pelle così vecchia che gli ricordava la corteccia di un albero.

Invece niente.

Il mondo era sempre grande, lo sovrastava. Gli adulti, gli alberi, le case, le parole stesse. I discorsi gli risultavano incomprensibili anche quando conosceva tutte le parole che li componevano. Peggio ancora: né sua madre né i libri erano in grado di chiarire tutti punti che si andavano accavallando sulla sua Lista Confusa.
Rimuginando così, Jean si era incamminato verso il campo di lumache. Guardò la lattuga che brillava al sole. Alla fine, con un gesto deciso afferrò l’innaffiatoio verde e lo rovesciò per bene, in modo che l’acqua scendesse sull’insalata fino all’ultima goccia.
Ecco fatto, adesso le lumache sarebbero uscite a mangiare.
Al resto, ci avrebbe pensato domani.



© Racconto di Lara Zambonelli | Illustrazione di Federica Crispo | Editing di Paolo Perlini


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