Via Nino Bixio | Racconti Indigeribili

Via Nino Bixio | Racconti Indigeribili

Scritto da Mathilde Tulla
Illustrato da Matteo Di Pasqua


Via Nino Bixio

«Sara, te lo ricordi Amin?».
Non rispose. Si asciugò soltanto l’unica lacrima con il pollice.
Continuammo a guardare nel vuoto per il resto della serata. Non so perché tirai fuori quel nome.
Erano passati undici anni. Non ne avevamo più parlato. Da Amin in avanti, inutile negarlo, niente era stato come prima. Non tornavo in città da allora. 

Era il primo lunedì di settembre. Fui risvegliata dal profumo del caffè e dal gorgoglio della vecchia moka. Dopo avermi dato il buongiorno, Sara disse: «Voglio essere del tutto sincera con te. Voglio farti conoscere una persona a cui mi sento molto legata». Accesi una sigaretta: «Dimmi tutto» la mia mano sulla sua. Tremava.
«Quando hai lasciato Enzo, hai fatto una scelta d’onestà. Sapevi che non ti saresti mai perdonata di fargli del male».
«Vero» la interruppi «ma io ed Enzo non avevamo futuro. Eravamo il mutuo soccorso dell’altro e non sarebbe mai andata avanti la nostra storia. Tu invece».
«Ecco, infatti. Io non ce la faccio a dire ad Andrea che è tutto finito. Questi chilometri ci dividono e il tormento si rafforza ogni volta che incontro questa persona. Credo stia nascendo qualcosa di molto forte, non so spiegarmelo», accese una sigaretta, «non c’è stato nulla tra noi, non ancora. Mi sento come al liceo: lo vedo e sono felice» e rise imbarazzata, la testa all’indietro, la bocca spalancata coperta dal palmo. Mi piaceva osservarla mentre il suo corpo si contraeva di gioia.
«Carla».
«Cosa c’è?».
«Dovresti vedere che culo perfetto!» lacrimava di gioia.
Andammo a pranzo in una piccola trattoria con le sedie e i tavoli di legno e le tovaglie a quadretti rossi e bianchi. Un tizio le si avvicinò alle spalle, mi fece cenno di restare in silenzio, le coprì gli occhi e lei senza indugio disse: «Amin, sei Amin!».
«E tu devi essere la famosa Carla».
Lo salutai come si salutano i marinai. Un po’ offeso ritrasse la mano che non avevo voluto stringere.
«Non prendertela Amin. Carla non ama il contatto. Dai non guardarmi così, tesoro: è la verità!».
«Non dovresti rivelare questi dettagli della tua amica» disse carezzandole i capelli.
Bevemmo ancora del vino. Era felice.
Ci ritrovammo a camminare tutti e tre lungo il fiume. Parlavano animatamente. Arrivati ai saluti, mi chiese quanto mi sarei fermata. Alzai le spalle. Non lo sapevo per davvero.
«Ci si vede in giro, allora» disse forgiando un sorriso perfetto.
Si abbracciarono. Mi salutò come fanno i marinai.
Nelle due settimane successive mi trasferii a casa di una mia compagna di corso, che mi accolse in un appartamento piccolo e accogliente che poi sarebbe diventata la mia dimora, ma non lo sapevo ancora. Mi tenni un po’ distante da Sara. Avevo paura di giudicarla.
Ero andata a letto da poco. Avevo passato la serata a un vernissage che si era trasformato, poco dopo mezzanotte, in uno scambio di fluidi stravagante. Il telefono squillò. Sara aveva la voce rotta dal pianto. Con fatica mi disse che Amin aveva tentato di togliersi la vita. L’aveva salvato il suo coinquilino, diceva, liberandolo dal laccio che stringeva il suo collo. In ospedale avevano detto che gli sarebbero bastati pochi giorni per riprendersi.
Laccio-collo-vita-salvato-ospedale: queste sono le parole che incamerai. Riuscii a tranquillizzarla. Sarebbe andata a trovarlo. Poi mi avrebbe raggiunta. Ma Amin non aveva voluto parlare con lei.
«Che pazzia è mai questa, Carla? Perché voleva uccidersi? Lui è gioia pura. Sa che mi sto innamorando di lui. Stiamo bene insieme. Perché? Ci siamo visti due sere fa. Sembrava sereno» scaricò tutta la sua adrenalina su di me.
Parlava e io mi staccavo la pelle dalle dita. Dissi solo: «Sembrava…».
Fui interrotta dalla telefonata di Andrea, ma non avevo altro da aggiungere. Una di quelle lunghe chiamate in cui nell’etere si moltiplicano i dubbi e non resta che litigare per nulla:
“Ti sento strano, cos’hai? Sì, ti ho detto che sto bene. Sì che mi manchi. Ma di chi è questa voce femminile? Dove sei? Mi avevi detto che non saresti uscito”.
Facevano sempre così.
Quando Sara mi lasciò per andare a riposare, decisi di passeggiare sul lungofiume. Avrei voluto raggiungere Amin in ospedale e scavare in fondo ai suoi occhi, fino a ritrovare la paura, l’attesa e la morte; come era capitato a chi aveva guardato nei miei qualche anno prima. A Sara gliel’avevo raccontato una sera in cui eravamo ubriache. L’aveva forse dimenticato. 
Tornai da Sara. Aveva pianto. Dormimmo abbracciate. La mattina seguente ci separammo: lei a lezione, io da Amin.
Era solo. Stordito dai calmanti. Mi avvicinai. Le lenzuola bianche splendevano sotto i neon. Biascicò qualcosa. Non dissi nulla: volevo solo scrutare i suoi occhi. Il passaggio della morte era sfocato. Mi convinsi che il suo fosse stato un gesto isolato, forse più per tranquillizzare Sara. Ma quando tornai da lei, Andrea aveva riacceso il suo sorriso e ogni traccia di Amin era svanita come per magia.
Sui miei vestiti, invece, sentivo l’odore di disinfettante e di sopravvissuto. Un mix tra salvezza e maledizione.
«Non voglio più vederlo» disse perentoria «non voglio che una persona così negativa faccia parte della mia vita».
E io che pensavo di aver giudicato lei.
Sara si dimenticò di Amin e lui si fece dimenticare: sparendo.
Frattanto io presi possesso dell’appartamento della mia collega di corso. Riprendemmo le nostre attività universitarie con solerzia. 

Passavo interi pomeriggi di pioggia in una piccola caffetteria di fronte al teatro.
Una voce sussurrò al mio orecchio: «Non è stato facile ma ti ho trovata», era Amin.
Si sedette. Un anno separava le nostre vite. Ordinò un tè. Come avevo previsto, si era tenuto alla larga dai giri di Sara. Ma non sapevo della sua ricerca: «Ho sempre sperato di incontrare te. Per farti una sola domanda. Posso? Risponderai?».
 «Non ti prometto nulla».
Strisciò ai miei piedi e fissandomi serio disse: «Anche tu, vero?».
«In un’altra vita».
Mi strinse per un polso: «Insegnami a non morire».
Liberai il braccio dalla morsa, raccolsi le mie cose e andai via.
Da quel momento non mi diede tregua. Lo ritrovavo ovunque. Arrivai a minacciarlo di non seguirmi. Non ci fu verso. Una sera lo trovai sulle scale di casa. Stavo andando a fare la spesa. Al ritorno, non c’era più.
Una tizia diede una festa e Amin era lì. Il mio tentativo di evitarlo funzionò abbastanza bene, ma all’alba si offrì di accompagnarmi a casa. In quei giorni, Sara non era in città. Partita come al solito per passare un po’ di tempo con Andrea: aveva facilitato la vita di Amin e chiuso in una trappola la mia.
Giunti sotto casa, mi chiese di salire. Gli risposi di no.
«Non insisto», disse, «sarai tu a cercarmi».     
Presuntuoso, pensai.  
«Io abito in via Nino Bixio 4, vieni a trovarmi!». E mentre si allontanava ripeté l’indirizzo ad alta voce rompendo il silenzio della città.     
Dopo un paio di notti insonni, Sara ritornò. La raggiunsi in stazione. Ci abbracciammo. Non stava più nella pelle. Mi mostrò la sua mano e in quella fredda nebbia del mattino restai abbagliata.
«Mi ha chiesto di sposarlo!».
Ero felice per loro.
Poi pensai a Enzo, non mi capitava da tanto.
Ci salutammo sotto casa sua e, poco dopo, mi ritrovai al civico 4 di via Nino Bixio.
Suonai e, aperta la porta, mi lanciai tra le sue braccia. Passammo tutto il resto della giornata, e la notte e la mattina seguente, nell’oscurità della sua stanza.
Mi aspettava una serata tra ragazze, organizzata da Sara per festeggiare il lieto evento. Fui sul punto di non andarci. Ma lo feci.
Glielo dissi mentre si faceva bella davanti allo specchio: «Te lo dico perché non voglio ci siano ombre tra noi. Sono stata con Amin».      
Non si voltò, disse: «Prendi ciò che vuoi. Io ce l’ho già».
Quella sera desiderai di essere altrove.           
La storia con Amin andò avanti: condividevamo l’oscurità.
Non lo vedevo da una settimana, lo raggiunsi a casa, volevo fargli una sorpresa. Suonai ma non rispose nessuno. Mi accorsi, però, che la porta era semiaperta. Entrai, avevo il cuore in gola, deglutivo a fatica. L’ombra dorata del suo corpo sulla parete della cucina mi gettò in un vuoto irreparabile. Ero nuovamente sola.       
Fu allora che decisi di lasciare la città.
Il matrimonio di Sara e Andrea non si celebrò. Lo lasciò qualche mese dopo la morte di Amin.


© Racconto di Mathilde Tulla | Illustrazione di Matteo Di Pasqua | Editing di Chiara Bianchi 


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