Annuk | Racconti Indigeribili

Annuk | Racconti Indigeribili

Scritto da Michele Scaccaglia
Illustrato da Kornelia S


Annuk 

Ho tolto il disturbo. È stata la scelta migliore. La mia scelta. Le storie si ripetono, il mondo si riavvolge, le stelle lo sanno. Per un breve periodo sarei stata l’attrazione principale, poi un peso, una cosa da gestire. Giorno dopo giorno, notte dopo notte, si sarebbero intristiti senza nemmeno accorgersene. E in quello stato catatonico poi le difese si abbassano, la pazienza viene a mancare. Ed eccoli gridare, insultarsi, sbattere porte, usarmi come cuscinetto per i loro attriti. A cosa sarebbe servito tutto questo? Certo, con altre premesse forse. Con altri intenti o, almeno, con una punta di ardore. No, non era questo il caso. Quei due erano avvolti da una nuvola di leggerezza e di disincanto. Tanti sogni e poco coraggio. La mia ex madre aveva appena chiuso una relazione con uno spagnolo giramondo che non aveva nessuna voglia di fermarsi troppo a lungo nello stesso posto. Lei lo sentiva che quella storia non sarebbe durata. Eppure, quando lui l’ha salutata, con un biglietto di sola andata in tasca, ha sofferto molto, perché essere abbandonati, a quanto pare, non piace a nessuno. Non era uscita di casa per una settimana. Aveva perso appetito. Passava i pomeriggi a bere birre afflosciata sul divano. A cena, un sacchetto di patatine. Poi ha incontrato il mio ex padre, in fuga dalla sua vita precedente e pronto a spaccare il mondo. “Ma come?”, pensò lei, “così presto?”. In effetti era troppo presto per innamorarsi di nuovo. 

Qualche mese fa, prima di addormentarsi, si misero a parlare di me, o meglio, del mio nome. Non posso ricordare come quell’argomento fosse caduto tra le lenzuola, ma sono sicura che fu lei a pronunciarlo per prima: 
«Annuk». 
Lui aveva sospirato guardando il soffitto. Doveva ammetterlo, era un bel nome. E poi era solo un gioco, un fantasticare su argomenti da adulti.
«Ha un significato?». 
«No. In russo sarebbe piccola Anna. Annina».
«Annuk. Mi piace» disse lui in dormiveglia. E così avevano attirato la mia attenzione. Avevano dato concretezza alla mia nebulosa. 

In un torrido pomeriggio di inizio estate, lei gli aveva inviato un messaggio sbrigativo: 
“A quanto pare, diventeremo genitori.” 
La raggiunse dopo neanche mezz’ora. Io ero lì, insieme a loro. Lei era il ritratto della tranquillità. Lui si era innervosito vedendola così in pace con sé stessa. Mangiarono un gelato, e in realtà non sapevano cosa dirsi. Mangiarono un altro gelato. 
«Quindi che si fa?». 
«In che senso?».
«Non so, tu vuoi tenerlo?».
Lei lo guardò stralunata, come appena riemersa da un sogno.
«Io non avevo nemmeno considerato l’ipotesi di non tenerlo».
Il suo sguardo si fece più affusolato: «Perché, tu sì?».
Lui si ritrasse da quel grosso punto di domanda.
«Io non lo so, non ero pronto a una cosa così. Credo che dovremmo almeno parlarne».
Lei aveva già capito tutto. E io anche. Il mattino dopo, dal ginecologo, il sorriso di beatitudine le era già scomparso dal volto, mentre lui in sala d’attesa sfogliava distratto riviste di gossip.
«Eccola qui», gli disse mostrandogli un’immagine ecografica, «lo vedi quel puntino?».

Quella ero io, nella mia prima apparizione pubblica. L’unica da viva. Una nuova immagine, tre settimane dopo, mi ritraeva nella stessa posizione, ma io me n’ero già andata. 
«Purtroppo il feto non si è sviluppato» disse il dottore. 
Prima di quella sentenza, lui non dormiva quasi più la notte. Lei non sapeva cosa fare. Ormai glielo chiedeva ogni giorno, rassegnata. 
«Dimmi se devo fare l’operazione, almeno. Non posso aspettare di più. Questa cosa inizio a sentirla mia».
Lui faceva discorsi elusivi, si disperava, avrebbe voluto sparire. 
«No, niente operazione», le ripeteva con rammarico. 
Il mio destino era già segnato. La mia volontà, inequivocabile. Su quel terreno infertile di emotività paludosa e ragionamenti torbidi ho deciso di non volerci stare. Senza di me, non dureranno molto insieme. Ma non sarebbero andati avanti a lungo nemmeno con me, senza fiducia e incastrati in una quotidianità scandita dalla diffidenza. 
Quando hanno scoperto che non c’ero più, piangevano, ma per motivi diversi. Non  meritavo un percorso così tortuoso. Una vita può essere bella, ma anche molto brutta. Ho deciso di non rischiare.


© Illustrazione di Kornelia S | Racconto di Michele Scaccaglia | Editing di Chiara Bianchi 


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